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La metafora come possibilità di comunicazione del dolore

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

La follia: modelli della psiche e approcci terapeutici La psicologia analitica a 100 anni dalla nascita di Franco Basaglia

2024 Nuova Serie Numero 5 Monografia Franco Basaglia

La metafora come possibilità di comunicazione del dolore

È sempre difficile consolare un dolore che non si conosce
Dumas, La signora delle camelie

Comunicabilità e incomunicabilità del dolore

Sembra difficile definire in modo chiaro e univoco cosa è il dolore, nonostante il fatto che questo è certamente un fenomeno universale cui nessuno nel corso della propria vita può sfuggire, salvo patologie che bloccano la possibilità di poterlo percepire a livello sensoriale e che possono portare facilmente a una morte prematura. Il dolore, come è noto, ha una fondamentale componente finalistica che permette di preservarci dai pericoli esterni e interni. Nella analgesia congenita, ad esempio, il corpo non è in grado di avvertire un danno biologico che sta avvenendo e questo espone la persona che ne soffre a una elevata possibilità di morte prematura. I dolori, infatti, vengono definiti “utili” proprio per questo motivo (un esempio tipico è il dolore da infarto che costringe il paziente a rimanere fermo, evitando, così, il pericolo di morte).

In medicina, dunque, la funzione protettiva del dolore è nota e accettata, seppure con qualche campo di incertezza non ancora risolto (ad esempio: a che serve il dolore nei casi oncologici o in tutte le tipologie di dolore cronico? Perché partorire con dolore? Dolori, questi, forse troppo sbrigativamente definiti “inutili”). Si tratta, comunque, di un evento talmente soggettivo e individuale, nonostante appunto la sua universalità, che lascia aperta la domanda se sia possibile oppure no comunicare in modo chiaro e univoco il tipo e la quantità e la qualità di dolore che ciascuno in un momento circoscritto sperimenta e prova. Nel sito web del centro per la terapia del dolore di Bologna (2024) troviamo scritto che il dolore «è il risultato di una complessa interazione tra lo stimolo puramente sensoriale (stimolo doloroso) e fattori legati alla persona (ambientali, culturali, religiosi, affettivi, genetici) che possono modificare in maniera importante quanto percepito. Infatti, il segnale doloroso, una volta generato, viene modulato (ridotto o amplificato) a vari livelli del sistema nervoso prima di arrivare ad essere percepito. Si spiega così come il dolore sia il risultato di un complesso sistema di interazioni, dove molti elementi ne definiscono intensità e caratteristiche».

L’inserimento all’interno di questa definizione dei fattori religiosi e culturali come variabili che influiscono sulla percezione del dolore del singolo individuo, evidenzia ancora di più quanto possa essere difficile spiegare a chi si trova all’esterno del nostro corpo, della nostra percezione e, a questo punto, della nostra storia personale, quanto e che tipo di dolore sentiamo. Per queste ragioni si coglie con immediatezza quanto sia difficile ideare degli strumenti per la misurazione obiettiva di un’esperienza che, per sua natura, resta estremamente soggettiva. Ma quanto è necessario al proseguimento della vita (fisica e psichica) che l’altro da me prenda in considerazione seria e si occupi del nostro dolore? Far capire all’altro senza correre il rischio da una parte di non essere visti, di essere dimenticati e dall’altro di essere svalutato e comunque non creduto, proprio a causa della mancanza di un canale di comunicazione efficace.

Alla fine degli anni Novanta, negli Stati Uniti, nasce quella che viene chiamata Medicina Narrativa che approderà in Italia solo nel 2014. Con questo termine, mutuato dall’inglese Narrative Medicine, si fa riferimento a

 

una metodologia d’intervento clinico-assistenziale basata su una specifica competenza comunicativa. La narrazione è lo strumento fondamentale per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura. Il fine è la costruzione condivisa di un percorso di cura personalizzato (storia di cura) […]. Per la Medicina Narrativa la narrazione del paziente e di chi se ne prende cura è un elemento imprescindibile di tutta la medicina contemporanea, fondata sulla partecipazione attiva dei soggetti coinvolti nelle scelte. Le persone, attraverso le loro storie, diventano protagoniste del processo di cura (SIMeN – Società Italiana di Medicina Narrativa, 2024).

 

«Capacità di riconoscere, assorbire, metabolizzare, interpretare e lasciarsi guidare da storie di malattie» sono le parole con cui Rita Charon (2006) descrive la Medicina Narrativa, sottolineando la necessità di un cambiamento strutturale profondo nel modo in cui il medico si relaziona al malato. La Medicina Narrativa chiede, infatti, agli operatori sanitari l’abilità di “coinvolgersi” – permettere che avvenga una “infezione psichica” diremmo con Jung (1946/1997, p. 188) – nelle storie del malato, di riconoscere le metafore, le allusioni, di tollerare le incertezze e le divagazioni proprie di una storia che si dipana ad entrare in una relazione emotiva.

Quello della Medicina Narrativa sembra essere un ponte che mette in collegamento tutte le aree mediche che si prendono cura del corpo, con tutto ciò che, invece, appartiene più al mondo del vissuto messo a disposizione attraverso la narrazione di sé, della propria storia e del proprio dolore. E il mezzo principe che viene utilizzato per facilitare la narrazione del paziente e la esplicazione del suo dolore è la metafora. Le metafore, infatti, hanno una capacità attrattiva e generatrice di senso, tale da costruire una rete di riferimenti fondamentale per la trasmissione del sapere all’interno della società o per la trasmissione di propri vissuti e stati emotivi all’interno della relazione con l’altro. Dire al proprio medico «sento la spalla come se avesse sopra un masso» piuttosto che dire «sento sulla spalla come se mi stessero pungendo una serie di aghi», facendo cogliere con immediatezza che ciò che dovrebbe essere mobile è bloccato, non soltanto permette di orientare meglio la diagnosi e, quindi, la terapia più adatta, ma fa anche sì che il paziente possa sentirsi compreso, capito, trovando le parole che aprono la strada a una condivisione dell’esperienza e permettendo al medico di poter immaginare sul proprio corpo come la persona ha vissuto o sta vivendo l’evento, il livello di sofferenza percepito.

Nel passaggio dalla medicina alla psicoterapia e dal dolore fisico al dolore mentale, le difficoltà di comunicazione e condivisione sembrano essere le stesse, così come restano gli stessi rischi di non essere presi in considerazione se lo si “sopporta bene” (come si usa dire in medicina) o, viceversa, di non essere presi sul serio se lo si “sopporta poco”. Pensiamo, ad esempio, a una persona con disturbo psicotico, drammaticamente scollegata dal suo essere in un corpo, e che potrebbe portare avanti un’ulcera o un tumore senza arrivare a percepire il minimo dolore e iniziare a lamentarsi lievemente solo quando, per un’altra persona, lo stesso dolore sarebbe diventato ormai insopportabile costringendolo a letto. La stessa cosa accade in queste persone per quello che riguarda quelli che possiamo chiamare i “dolori mentali”, che vengono percepiti con tempi diversi, modalità diverse e comunicate su piani esclusivamente di ordine concreto e simbolico, difficili quindi da tradurre per chi è all’esterno in un linguaggio condiviso. Viceversa, è ugualmente probabile con queste persone imbattersi in dolori che non hanno alcun riscontro organico, ma che ugualmente persistono, fiaccano il corpo e lo spirito, bloccano, invalidano perché vengono realmente esperiti dal soggetto. In questi casi, l’unico assioma possibile dovrebbe essere che dal momento che un dolore viene lamentato quel dolore esiste e va preso in carico, declinando ovviamente il “come” di caso in caso.

 

Durante un colloquio con il suo psichiatra, A.M., una donna di 60 anni, chiede insistentemente che le vengano aumentati i farmaci per dormire. «Sono almeno due mesi e mezzo che non dormo, la sera spengo il televisore, mi metto sul letto e sto tutta la notte con gli occhi spalancati. Aspetto che arrivi il giorno e poi mi alzo e ricomincio la giornata. Nemmeno di pomeriggio riesco mai ad addormentarmi, non chiudo gli occhi per 5 minuti di seguito ormai da mesi. Per questo ho assoluto bisogno che lei mi aumenti il dosaggio dei sonniferi». Lo psichiatra, guardandola negli occhi e con sincera serietà, le risponde: «Io sono assolutamente certo del fatto che lei sia convinta di non dormire da due mesi e mezzo e se vuole possiamo parlarne ancora. Ma non posso aumentarle il farmaco».

 

Leggendo la metafora presente dietro la comunicazione della paziente è stato possibile comprendere il vissuto della persona e rispondere con accoglienza, senza scivolare sul piano concreto, facendola sentire accolta, creduta e contenuta.

Come riporta Anna Maria Antonucci (2021, p. 117):

 

Particolarmente significativa è la definizione dello psicologo/storico Julian Jaynes (1984), per cui il lessico del linguaggio, di per sé finito e compiuto, grazie alla metafora può estendersi a coprire una serie infinita di circostanze, creando addirittura circostanze nuove. La sottile funzione della metafora è quella di generare nuove componenti della lingua, ma la peculiarità del linguaggio metaforico è di descrivere un’esperienza che al tempo stesso genera nuovi modelli di coscienza che ampliano i confini dell’esperienza stessa. […] il linguaggio metaforico suscita a livello di chi lo produce o di chi lo ascolta un’emozione, pertanto è uno strumento di consapevolezza e narra ciò che a volte non sembra accessibile al linguaggio.

 

Secondo Jung (1984) i simboli, così come le metafore, comunicano e suggeriscono qualcosa che sta al di là del loro aspetto o significato ovvio e immediato, rinviando a un senso più ampio “inconscio” che non è mai definito con precisione o compiutamente spiegato. La forza dei simboli sta nel loro carattere “numinoso” (o energia psichica), in quanto suscitano in noi una risposta emotiva, un senso di soggezione e ispirazione. I simboli sono insieme immagini ed emozioni perché senza valenza emozionale – la qualità “numinosa” – un simbolo è privo di significato. Le immagini e le emozioni sono proprio quegli strumenti di comunicazione che permettono il mettersi in contatto tra persone, la condivisione di una esperienza vissuta solo da uno ma in cui l’altro può, in qualche modo, ritrovarsi.

Come indirettamente detto, il passaggio dal corpo allo psichico non è assolutamente così netto e radicale, ma anzi le due aree sono profondamente intrecciate e collegate tra loro, tanto che risulta spesso difficile pensarle separatamente e lo si fa solamente per artificio. A sottolineare la profonda connessione tra le due aree (psichica e corporea) c’è anche il fatto che se la mente a volte “dimentica” (dal latino dementicare “uscir di mente”), il corpo, invece, sempre ri-membra perfettamente e in modo autonomo, a volte sollecitando la mente a rendersi nuovamente cosciente di un qualcosa di rimosso. Diremmo con Van Der Kolk (2020) che “il corpo accusa il colpo”. Se riprendiamo il tema del discorso evolutivo, così come possiamo affermare che il dolore fisico viene dimenticato con il passare del tempo e non lo si sa più rintracciare veramente (sempre valide, anche in questo caso, le testimonianze delle donne che hanno partorito che ricordano di aver provato dei dolori ma non li sanno più rievocare), allo stesso modo è probabile che per la nostra sopravvivenza sia utile e sano ricordare i dolori che la nostra psiche ha provato nel corso della vita per poterli far riemergere e metabolizzare. Si tratta, in fondo, di gran parte del lavoro dei primi anni di Freud.

 

A seguito di questa elaborazione e di questo interrogarsi sul tema del dolore e della sua possibilità di comunicazione e condivisione attraverso simboli e metafore, si inserisce un’esperienza fatta in prima persona all’interno di una struttura residenziale terapeutica riabilitativa per giovani adulti (18-25 anni) con problemi psichiatrici. Non si tratta di un caso clinico ma della narrazione, appunto, di un turno pomeridiano fatto all’interno della struttura, al fine di provare a esplicitare come, attraverso un fare simbolico condiviso, è stato possibile accedere a un livello di comunicazione profonda dell’angoscia attraversata in un momento di crisi profonda di un’utente e trasformare, attraverso le azioni (“atti parlanti”, come vengono definiti da Racamier 1982), le immagini e il disegno, un processo in corso.

 

Un turno in comunità con M.

 

M. ha 24 anni, si trova in comunità da quasi 2 anni per ricovero volontario con l’intento di allontanarsi da casa dove, per lei, la situazione è diventata ingestibile. Vive in Italia dall’età di 8 anni quando, insieme ai suoi fratelli più piccoli, è stata presa in adozione da un orfanotrofio dell’Est Europa in cui viveva dall’età di 4 anni. Prima ancora, M. viveva con una madre violenta e disturbata e, nonostante le numerose segnalazioni di abusi e maltrattamenti, si è arrivati a toglierle la patria potestà solo in seguito a una aggressione molto violenta che ha portato la bambina a un lungo ricovero in ospedale a causa di una frattura del cranio operata dalla madre con un martello. Gli anni in orfanotrofio, inoltre, vengono descritti dalla ragazza con ripetuti atti di violenza subita, punizioni e privazioni. La mamma adottiva dice di essersi «innamorata di lei appena vista», e che per adottarla senza separarla dai fratelli ha deciso, con il marito, di adottare tutti e tre. Verso i 12 anni M., che da sempre si dimostra una bambina problematica e con una vasta e cangiante sintomatologia, inizia a praticare l’autolesionismo in maniera sistematica e molto grave, tanto da farlo diventare il suo unico mezzo per calmarsi nei momenti di maggiore angoscia.

Nel corso degli anni le diagnosi che M. ha ricevuto presso i vari servizi cui ha avuto accesso sono state innumerevoli: Disturbo Bipolare, Disturbo Borderline di personalità, Sindrome di Asperger, ADHD, Dislessia, Discalculia, Disturbo Post-Traumatico da stress, Plusdotazione e altri.

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Quel pomeriggio, per la prima volta, raggiunge la stanza operatori e confessa: «Ho l’ansia, l’impulso a farmi del male». Solitamente ci si accorge dei suoi tagli solo molto dopo che se li è procurati e a volte solo se lei li mostra a qualcuno perché estremamente abile a nascondersi. La ragazza è molto agitata e sfugge allo sguardo. L’operatrice le chiede se nella sua stanza è in possesso di qualcosa che possa aiutarla nel suo intento di farsi del male ma lei evita di rispondere direttamente dicendo che se volesse farlo potrebbe usare anche solo una matita ben appuntita. Insistendo nel chiedere con fermezza e reale preoccupazione però alla fine ammette di avere nascosto nella sua stanza qualcosa. Le viene chiesto di aiutarsi e di consegnare quello che ha; avendo deciso lei che quello sarebbe stato un giorno diverso da gli altri non ci mette molto a farsi convincere e dopo una decina di minuti accompagna l’operatrice nella sua camera da letto. Dal cassetto del comodino tira fuori una scatola di cerotti con dentro un pezzetto di carta arrotolato al cui interno conservava la lama di un temperino precedentemente smontato e la consegna senza parlare. Immediatamente, però, entra in uno stato di ansia molto forte, è sempre più agitata e dice che il fatto di essersi privata di quella lametta non la far stare meglio, ma che, anzi, ora si sente senza più possibilità di farsi del male e questo la preoccupa. L’operatrice sente il grande gesto di fiducia che l’utente ha fatto nei suoi confronti e che proprio questo le sta comunicando ora: «la mia possibilità di farmi del male è ora nelle tue mani, mi sono voluta fidare, ma sono terrorizzata». Rimangono insieme un po’ di tempo a parlare fin quando sembra che parte della agitazione sia rientrata e possa restare da sola.

Le regole della struttura, ovviamente e comprensibilmente, dicono che ogni oggetto tagliente o potenzialmente lesivo debba essere tenuto sotto chiave oppure gettato e smaltito fra i rifiuti. La lametta di un temperino non ha senso che venga conservata, tuttavia l’operatrice si ritrova a sospendere la decisione e a mettere la lametta nella sua borsa personale[1]. Dopo una decina di minuti M. si affaccia di nuovo e chiede con curiosità e sospetto «che ne hai fatto della mia lametta?». La cosa migliore resta fidarsi dell’intuizione e dire la verità, perciò le viene detto che non ne è stato fatto ancora nulla, che è bene pensarci prima di decidere che farne e in attesa di prendere una decisione si trova nella borsa, mostrandola. M. di nuovo si agita, ripete che si è pentita di aver consegnato quella lametta, che la conservava da tanto tempo e in qualche modo ci era affezionata; sa che è qualcosa che le fa del male ma è allo stesso tempo qualcosa che l’ha molto aiutata e il fatto di non averla più la fa stare in ansia e la rivorrebbe indietro. L’operatrice interpreta dentro di sé il messaggio che la ragazza le sta inviando con quelle parole e che fanno seguito a quel gesto di fiducia e di affidamento di prima e si muove tentando una strada affettiva e concreta allo stesso tempo. Le dice: «M. io questa lametta la devo proprio buttare, però capisco quanto per te sia stata importante e allora non mi va di buttarla nel secchione della spazzatura in mezzo alla strada, mi dispiacerebbe e mi sembrerebbe di mancarti di rispetto. Se sei d’accordo, la porto a casa mia e stasera la butto nel secchio di casa mia».

Lei spalanca gli occhi, un po’ incerta e un po’ incredula; ci pensa un attimo e poi dice: «Questa cosa non ha alcun senso… ma per qualche motivo mi fa sentire un po’ meglio!». Preso questo accordo, compare il primo sorriso distensivo del pomeriggio. É plausibile pensare che questo accordo sia stato vissuto dalla paziente, a un livello profondo, come un tentativo da parte dell’operatrice di comunicare l’intenzione di volersi prendere carico e cura anche della sua parte distruttiva che, per quanto lacerante (in ogni senso in questo caso), è comunque per lei un aspetto fondante della sua storia, e non può essere semplicemente “presa e buttata via”, ma necessita di qualcuno che sia disposto a farsene carico, a digerirla e trasformarla per lei. In questo modo, il “luogo” di cura diventa la relazione e non più la comunità.

Trascorre una ulteriore mezz’ora e M. torna nella stanza operatori. Adesso indossa una lunga vestaglia, le mani dentro le tasche e il cappuccio sopra la testa fino a coprirle il volto a metà. Si siede senza parlare. Dopo lunghi minuti, senza alzare lo sguardo, dice: «Prima ti ho detto una bugia. Avevo altre cose in camera per farmi male che non ti ho dato e che non so se darti. Mi vergogno molto di questi oggetti che ho, non so cosa penserai». Questa volta la contrattazione è più lunga, ma la sua evidente richiesta di aiuto è commovente. È evidente anche per il fatto che si intuisce dai movimenti che, in realtà, gli oggetti in questione li ha già portati con sé, nascondendoli nelle tasche della vestaglia. È necessario, però, superare lo scoglio della sua vergogna che provoca nell’altra un certo timore per quello che può effettivamente nascondere dentro a quelle tasche, vista la forte reticenza. Placato un po’ il terrore che si sente dentro e che viene indotto, si decide per tentare di nuovo una via concreta come prima, una azione simbolica: «facciamo così: io apro la mani e tengo chiusi gli occhi e li apro solo quando mi hai dato gli oggetti che hai nelle tasche». Come una bambina piccola, alleggerita dallo sguardo distolto dell’operatrice, accoglie questa proposta e deposita quest’altro pezzetto di sé. Fra le mani l’operatrice trova quattro siringhe ancora incartate. Sorride per tranquillizzarla, non la sta giudicando e ora si sente meno spaventata. Anche questo “dono” viene messo dentro alla borsa insieme alla lametta, assicurando a lei lo stesso trattamento. A quel punto può raccontare che le siringhe le usa da sempre per farsi con forza dei buchi sulle braccia e sulle gambe, che poi si trasformano in terribili ematomi; fino ad ora aveva sempre detto a tutti di fare questa cosa con penne o matite perché si vergognava di parlare delle siringhe. Un altro gesto di grande fiducia.

La crisi però è tutt’altro che passata, anzi, è probabilmente al suo apice. L’angoscia senza nome che solitamente avrebbe sfogato tagliandosi o facendosi del male, è ancora lì che chiede di essere ascoltata e placata e lei, che ha iniziato a tagliarsi all’età di 12 anni, non possiede strumenti alternativi per uscirne. È una buona occasione per provare a trovarne di nuovi insieme, ma la mente non sa dove dirigersi, sembra come bloccata dalla paura della crisi che è in corso. Stare in silenzio ma vicino fisicamente, in una dimensione di attesa, provando a non saturare lo spazio e ad avere fiducia nel processo alla fine porta i suoi frutti. M., infatti, riprende a parlare e, con orrore, dice che continua ad avere in testa immagini di pelle tagliata da cui esce il sangue e a pensare che adesso non lo può fare. L’idea delle immagini risveglia dal torpore la mente dell’operatrice che si ricorda che a M. piace disegnare, anche se lo fa raramente perché dopo aver concluso un disegno le viene l’impulso di distruggerlo. Proprio per questo motivo, qualche mese prima, avevano creato insieme una cartellina con il suo nome che veniva conservata dentro all’armadio della stanza operatori con dentro quei pochi disegni che si erano salvati nel tempo e alcune poesie scritte da lei. L’operatrice le chiede, quindi, se se la sente di improvvisare un disegno, un disegno qualsiasi. Lei inizialmente fa resistenza, dice che non saprebbe cosa disegnare, che ha la testa vuota e non ha la fantasia ora per farlo. Viene rassicurata dicendo che è possibile solamente stare a vedere cosa succede, insieme, senza aspettarsi o programmarsi niente. Chiederle direttamente di disegnare le immagini che aveva in testa sarebbe stato probabilmente troppo intrusivo, oltreché saturante. Alla fine, non senza riluttanza, accetta avendo a disposizione le poche cose di cancelleria che la comunità forniva (qualche penna colorata, un paio di pennarelli ed evidenziatori, una matita grigia). Lei prende la matita e di getto inizia a disegnare. Nell’osservare dall’esterno il disegno che prende forma, sembra di rintracciare l’immagine di due lembi di pelle tagliati e tenuti insieme da un filo di sutura centrale. I quattro angoli del foglio vengono riempiti da scarabocchi fitti e neri.

Quando finisce descrive così il disegno: «È la bocca di un mostro gigante, quelli al centro sono i denti appuntiti. L’ho disegnata chiusa perché quando è aperta si vedono tutte le interiora del mostro e fa schifo. Quelli agli angoli sono stormi di altri mostri che si vedono in lontananza e ancora non si distinguono bene, ma sono tantissimi e stanno arrivando. Se chiudo gli occhi riesco a vedere solo mostri, mostri ovunque. Mi fa schifo questo disegno». Quando le viene chiesto di spiegare meglio cosa intende per “schifo” risponde d’impulso: «Beh è meglio disegnare cose belle!». A quel punto le viene restituito il foglio e le viene detto: «Bene, allora adesso prova a trasformare questo disegno in qualcosa di bello… oppure in qualcosa di ridicolo che ci faccia ridere!». Lei è sempre perplessa, ma arrivate a questo punto la fiducia si è consolidata ed esegue senza pensarci troppo.

  1. prende un evidenziatore e inizia a colorare tutta la fila dei denti di un rosa fosforescente e quasi subito scoppia a ridere dicendo: «Mi è venuta in mente una cosa ridicola che mi fa troppo ridere». Tornano alla mente le parole di Winnicott quando scrive che: «È nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo, e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé» (Winnicott 2005, p. 94), i momenti in cui «il bambino sorprende se stesso» (ivi, p. 89).

Qualche minuto più tardi, M. mostra il disegno di una splendida torta colorata e fosforescente con una ciliegina in cima. In altri giorni hanno spesso scherzato insieme sul fatto che l’operatrice non sa cucinare e quindi, ancora ridendo forte, dice: «Mi è venuto da ridere perché ho pensato che è una torta che avresti potuto cucinare tu!». L’operatrice ride con lei e contemporaneamente si commuove. M. aggiunge che il nero intorno (quello che prima rappresentava i mostri che stavano arrivando e si vedevano in lontananza) potrebbe essere il fumo che esce dal forno dopo che l’operatrice ha cucinato e che la torta è brutta, ma davvero buona. L’evoluzione del disegno da “bocca di mostro” a “torta brutta ma buona”, oltre a rappresentare la potenzialità trasformativa di tutti gli aspetti autodistruttivi, divoranti, della ragazza è, probabilmente, anche un simbolo del processo avvenuto nel corso di tutto il pomeriggio all’interno di quella relazione di cura: entrambe, operatrice e utente, hanno corso il rischio che tutto si bruciasse ma il risultato, che apparentemente può lasciare dubbi e perplessità, se ci si fida, ha invece un buon sapore.

In questo nuovo clima sereno, finalmente rilassato, iniziano a fantasticare su come potrebbe essere fatta questa torta, con quali ingredienti. La pianificano insieme nel procedimento, si dividono gli ingredienti da acquistare e si danno appuntamento per la settimana successiva per realizzarla insieme nella cucina della comunità. Sarà un pomeriggio all’insegna della musica, della leggerezza e della condivisione e la torta verrà poi offerta come merenda a tutti gli altri ospiti della comunità. Verrà fatta fredda, senza cottura e senza usare il forno, per non correre il rischio che si possa bruciare. Il disegno della torta, chiamata “torta (M)artina”, viene conservato nella cartellina che sta nell’armadio con gli altri disegni suoi che si sono salvati dal suo distruggere, cartellina che diviene metafora del suo mondo interno che, per il momento, necessita di qualcuno esterno che se ne prenda cura e lo protegga dalla propria aggressività, ma che presto potrà essere recuperato come parte del proprio bagaglio personale, di vita, e integrato nella capacità di prendersene cura da sola. D’altra parte, come spiega Hillman (1983), il fine della psicoterapia è educare alla capacità immaginativa.

 

Conclusioni

Il lavoro continuativo all’interno delle comunità terapeutiche permette di assistere alla nascita della capacità, della possibilità di imparare a comunicare un dolore muto, passando da una comunicazione fatta solo attraverso agiti distruttivi alla trasformazione degli stessi in azioni simboliche e pregne di significato. La comunità, però, come struttura, è una condizione necessaria (solo in questi turni di lavoro, ad esempio, si può avere a disposizione tutto il tempo che è stato necessario per il dispiegarsi del lungo processo sopra descritto), ma non sufficiente di per sé. La dimensione della cura all’interno di queste strutture, infatti, si fonda su due pilastri fondamentali: il primo è la relazione umana e terapeutica che si deve instaurare tra operatori (psichiatri, psicologi, infermieri, OSS, assistenti sociali) e utenti. Nel racconto precedentemente riportato risulta evidente come M. abbia potuto affidarsi all’operatrice sulla base di una relazione costruita piano piano, nel tempo e nella continuità della presenza. Questa base sicura, di fiducia, ha permesso all’utente di potersi sperimentare, affidandosi a un tentativo di cambiamento dei suoi meccanismi disfunzionali e (auto)aggressivi. Il secondo pilastro riguarda la capacità da parte degli operatori di coltivare l’intenzione di esserci per l’altro, facendosi garante di presenza e affidabilità. Si tratta di quello che Borgna chiama “comunità di destino” dove la separazione tra chi cura e chi è curato non può essere così netta, c’è necessità di una sintonizzazione «nella quale si esca dalla nostra individualità, dai confini del nostro egoismo, e non si riviva il dolore, la sofferenza altrui, come qualcosa che non ci interessi, come qualcosa che non ci appartenga. […] sentire e vivere il destino di dolore, di angoscia, di sofferenza, di disperazione, di gioia e di speranza dell’altro come se fosse, almeno in parte, anche il proprio destino: il destino di ciascuno di noi» (Borgna 2011, pp. 14-16).


 Note

  • [1] Oggi è possibile dire che è probabile che quell’azione fosse dettata da un’area di comune inconscietà che ha messo in comunicazione profonda utente e operatrice, facendo sì che alcune cose potessero avvenire e gli si potesse trovare un senso successivamente.

Bibliografia

  • Antonucci A.M. 2021, La metafora come strumento di analisi dell’esperienza e di intervento terapeutico in psicologia, in «Riabilitazione Neurocognitiva», n. 2.
  • Borgna E. 2011, Elogio della depressione, Giulio Einaudi Editore, Torino.
  • Charon R. 2006, Narrative Medicine: Honoring the Stories of Illness, Oxford University, New York Press. Disponibile a: https://www.academia.edu/37834390/Narrative_Medicine_Honoring_the_Stories_of_Illness.
  • Hillman J. 1983, Le storie che curano, Raffaello Cortina, Milano.
  • Jaynes J. 1984, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, Milano.
  • Jung C.G. 1984, L’uomo e i suoi simboli, Mondadori, Milano.
  • Jung C.G. 1946/1997, La psicologia della traslazione, in OCGJ, vol. XVI, Boringhieri, Torino.
  • Racamier P.C. 1982, Lo psicoanalista senza divano, Raffaello Cortina, Milano.
  • SIMeN – Società Italiana di Medicina Narrativa, 2024, https://www.medicinanarrativa.network/.
  • USL di Bologna 2024, I Centri di Terapia del dolore, https://www.ausl.bologna.it/cit/dolore/centri.
  • Van Der Kolk 2020, Il corpo accusa il colpo, Raffaello Cortina, Milano.
  • Winnicott D.W. 2005, Gioco e realtà, Armando, Roma.

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