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Iperconnessione e de-connessione nel mondo di oggi: le nuove sfide nella stanza di analisi

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

contemporanea

2022 Nuova Serie Numero 3 Contemporanea

A CURA DI ANNA MONCELLI Una delle eredità più significativa che il pensiero di Jung ha lasciato alla psicologia, é stata quella di sottolineare il rapporto dialettico tra lo spirito del tempo e i vissuti individuali. La concezione di malattia e cura, si riferiscono così, ad una psiche che vive nel mondo, nella società e partecipa alla storia. La rubrica Contemporanea in continuità con questa visione, offre uno spazio di riflessione su temi di attualità. E’ uno spazio dedicato alla riflessione e alla ricerca di chiavi di lettura, che mettano in relazione quegli accadimenti del nostro tempo che si impongono all’ attenzione secondo visioni parziali, con una visione simbolica che ne restituisca possibilità di senso psichico.

Iperconnessione e de-connessione nel mondo di oggi: le nuove sfide nella stanza di analisi

Nell’ultimo trentennio, a partire da quel fatidico 30 aprile 1993, data in cui il CERN decise di rendere pubblica la tecnologia alla base del World Wide Web in modo che fosse liberamente implementabile da chiunque, la vita di ciascuno di noi ha subito una svolta radicale. Inizialmente solo per scopi scientifici e accademici e successivamente anche per uso personale e ludico, il mondo del web è entrato a far parte in pianta stabile delle nostre pratiche di vita quotidiana, pervadendo con grande forza molti, se non tutti gli ambiti dell’esistenza.

Nonostante le modalità d’utilizzo, la facilità di accesso, la confidenza nel mezzo, siano differenti in forma e grado tra le diverse generazioni, ormai l’esperienza corrente è quella di essere always on: cellulare acceso, email attiva, wifi online, come se la ‘rete’ sia una necessità di base di maslowiana memoria; come se oltre a bere, mangiare, dormire sia necessario garantirsi un accesso, sempre e comunque. Ma un accesso a cosa, a chi, verso quale luogo? E soprattutto a quale scopo?

A quest’ultima domanda forse può rispondere un elemento che, dai boomers alla generazione alpha, sembra essere comune: negli ultimi anni internet è passata da luogo preminentemente di conoscenza a spazio di vita sociale e lavorativa (pensiamo ad esempio allo smart working che ormai è prassi piuttosto comune, cosa impensabile 10 anni fa) e quindi ‘connettersi’ è diventato sempre di più un fatto ‘relazionale’. Accedere alla rete, allora, ha come scopo proprio quello di ‘interconnettersi’ (non a caso parliamo di internet). Interconnettersi per connettersi con, unire, mettere insieme, creare un legame (Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Zanichelli).

Tuttavia, come sottolinea Bauman, in una intervista al quotidiano La Repubblica del 20 novembre 2012, nella nostra società liquida, liquida è anche l’affettività e le relazioni sono state sostituite dalle connessioni; così mentre i legami richiedono impegno, ‘connettere’ e ‘disconnettere’ è tutto sommato un gioco da bambini, basta un click. Lo spazio di elaborazione tra emozione e azione è ridotto e gli agiti prendono il sopravvento; nello spazio virtuale si ‘banna’, si ‘blocca’, si mette un ‘like’, con estrema facilità visto che vivere sulla propria pelle l’impatto emotivo che la nostra azione ha sull’altro è una esperienza talmente diluita, talmente lontana da sembrare irreale, nel senso junghiano del termine, cioè tale da ‘non agire’, quindi innocua, fatua, inesistente.

Il web, inoltre, è come una finestra aperta sul mondo che fornisce la sensazione onnipotente di poter guardare, guardarsi (i selfie, i post), essere guardati (influencer, opinionisti), odiare (gli haters), amare (i like), conoscere (i social, i siti di incontri), esprimere opinioni, organizzare incontri tra amici e sconosciuti (i flash mob), fare protesta politica, perfino nascondersi tra le oscurità del dark web e tanto altro ancora. E questa modalità è diventata ancora più pervasiva nelle ultime generazioni, native digitali, che con uno swipe entrano nel mondo ed hanno modellato, in tal modo, la loro esperienza dello stesso.

Essere connessi, allora, non vuole dire solo comunicare, ma è anche, di fatto, un modo-di-stare al-mondo. Cosa significa per noi analisti junghiani confrontarci con tutto ciò, soprattutto dopo la pandemia e in un momento storico di grande angoscia e incertezza sul futuro, dominato dalla ferita narcisistica di una società che si è dovuta confrontare con il limite della propria mancata onnipotenza?

Quale registro possiamo adottare per tradurre questo tipo di linguaggio? Con cosa dobbiamo confrontarci fuori e dentro la stanza di analisi per trovare un senso, per poter interpretare ciò che l’iperconnessione porta con sé? E come individuare le ‘giuste frequenze psichiche’ nostre e dell’Altro da far risuonare insieme per amplificare utilmente le possibilità relazionali, molto spesso solo in nuce?

Mi sembra che aprire uno spazio di riflessione non sia soltanto un esercizio intellettuale interessante e stimolante, ma di fatto una necessità per rendere dicibile e quindi maggiormente integrabile nella nostra esperienza di esseri umani e di analisti questo modo di stare al mondo che troppo spesso, come vedremo più avanti, porta con sé un vuoto di senso.

Partiamo allora da una prima considerazione, ovvero quella che riguarda la ‘necessità di connettersi’. Sappiamo bene quanto i bisogni coscienti abbiano il loro contrappasso nell’inconscio e viceversa:

occorrerebbe non soltanto considerare la funzione dell’inconscio una funzione compensatrice e relativa al contenuto della coscienza, ma anche considerare il contenuto della coscienza relativo al contenuto inconscio momentaneamente costellato. In questo caso l’orientamento attivo secondo fine e intenzione non sarebbe solo un privilegio della coscienza, ma verrebbe anche a proposito dell’inconscio, si che l’inconscio sarebbe anche in grado – esattamente come lo è la coscienza – di assumere una guida orientata finalisticamente (Jung 1916/1948, p. 273).

per cui possiamo anche ipotizzare che la necessità di connettersi in parte sopperisca ad una tendenza inconscia opposta, che è quella di de-connettersi, cioè non solo di non mettersi in relazione ma anche di non mettere in relazione lasciando, quindi, il mondo interno spezzettato, frammentato, come se la costruzione di senso, che nasce dalla possibilità di collegare i diversi elementi dando vita ad una nuova forma integrata, sia manchevole. La possiamo immaginare come una carenza di tessuto connettivo intrapsichico che, al pari di quello organico che ha la funzione di provvedere al collegamento, al sostegno, alla protezione, al nutrimento, alla difesa immunitaria, al trasporto di fluidi, alla riserva energetica di altri tessuti dei vari organi, deve garantire la vita.

Sul piano psichico questa carenza forse spinge a cercare affannosamente, senza successo, nel mondo esterno quel senso che manca all’interno, innescando una ‘retroazione negativa’ tale per cui tanto più la necessità di connessione diventa ipertrofica tanto più l’esperienza ad essa connessa si svuota di significato (e viceversa). Non è un caso credo che negli ultimi anni la psicologia, la psicoanalisi e la psichiatria si siano interessate del concetto di trauma, identificando proprio nella frammentazione dell’esperienza e nella impossibilità di integrare tali frammenti nella vita cosciente uno dei nuclei fondamentali del vissuto traumatico. Probabilmente ad un livello profondo gli ‘specialisti della salute mentale’ hanno colto il grido di dolore di una esistenza de-connessa e, attivando le loro competenze, hanno dato vita ad un dibattito tuttora molto vivo e fecondo.

Lo svuotamento di senso è accompagnato, inoltre, dalla perdita dell’Altro, non tanto (o non solo come nel fenomeno, ad esempio, degli hikikomori) quello reale appartenente al mondo esterno, ma anche (e primariamente) quello fantasmatico, del mondo psichico interno. A qualche livello l’oggetto come polo differenziante, con il quale confrontarsi, accettando le delusioni, le frustrazioni e la sofferenza, è venuto meno e la partecipazione al mondo ‘connettendosi’ è diventata narcisistica; narcisistica in quanto dall’altra parte della rete nella maggior parte dei casi non c’è qualcuno interessato veramente al mondo dell’altro, quanto piuttosto un individuo interessato, a sua volta, ad essere rispecchiato, idealizzato, considerato ‘speciale’; insomma l’interlocutore virtuale non è un genitore buono pronto a sostenere il transfert Oggetto-Sé e a frustrare progressivamente i bisogni onnipotenti del bambino, ma un altro che tenta la medesima manovra transferale.

E sappiamo bene che nella dimensione narcisistica l’Altro non esiste: Narciso può solo ammirare sé stesso e l’unica voce che ode è quella di Eco, condannata a ripetere le ultime parole che ascolta, senza alcuna possibilità di manifestare sé stessa. Una grande solitudine dunque.

Solitudine peraltro acuita dalla pandemia che ci ha costretto a rinunciare, per un lungo periodo, ai contatti reali con il mondo e a sostituirli con mezzi virtuali. Siamo ovviamente tutti grati alla tecnologia che ha consentito a ciascuno di noi di mantenere i legami con la realtà esterna, ma non possiamo negare che, nonostante fossimo tutti ultraconnessi, non ci sentissimo terribilmente soli. La pandemia, in un certo senso, ha mostrato crudelmente il lato oscuro dell’iperconnessione.

Una seconda considerazione riguarda il fatto che la funzione compensatoria è indissolubilmente legata alla funzione trascendente:

La risposta consiste evidentemente nell’eliminare la separazione tra coscienza e inconscio. Questo risultato non si ottiene giudicando unilateralmente, con decisione cosciente, i contenuti dell’inconscio, ma piuttosto riconoscendo e tenendo nel debito conto il senso di questi contenuti per la compensazione dell’unilateralità della coscienza. La tendenza dell’inconscio e quella della coscienza sono infatti i due fattori che contengono la funzione trascendente. Questa funzione si chiama trascendente perché rende possibile passare organicamente da un atteggiamento all’altro, vale a dire senza perdita dell’inconscio (Jung 1916/1957, p. 88)

e che la funzione trascendente rappresenta quel movimento che porta l’organismo psichico a trascendere le polarità, cioè tutti gli opposti in cui di volta in volta la psiche si trova ad esistere.

In questo senso «la funzione trascendente altro non è che il simbolo nel suo autentico valore di funzione o attività (e non di res o signum o in genere di fatto)» (Trevi 1995, p. 175). L’ipertrofia della connessione, allora, che sul piano inconscio si riverbera in una potenziale de-connessione, cioè in una difficoltà profonda a ‘mettersi in relazione’ internamente e con il mondo esterno, potrebbe avere una correlazione con una funzione trascendente debole o mal sviluppata e quindi con una conseguente atrofia della capacità simbolica, cioè della possibilità di sintetizzare in nuove forme, ricche e vitali, aspetti opposti dell’esperienza. Da un punto di vista clinico la de-connessione è molto evidente nella fascia 15-30 anni, dove spesso ci capita di incontrare ragazzi e giovani adulti che sembrano avere una forte difficoltà a riconoscere e a regolare le emozioni, di norma evacuate nel corpo sotto forma di stati somatici e/o di attacchi di panico e che faticano a istituire processi di pensabilità tanto che gli agiti, anche autodistruttivi, sono frequenti. Spesso gli appartenenti a questa fascia di età oltre ad avere condotte autolesive, abusano di sostanze, soprattutto di alcol; arrivano da noi con capacità introspettive coartate o deficitarie, con un pensiero fortemente concretistico, o viceversa con fantasticherie circa il proprio futuro difficilmente realizzabili e con un senso di smarrimento, di anedonia, di scarsissima progettualità. Quasi congelati in un eterno presente che non muta.

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Bisogna anche ammettere, però, che questi ragazzi in molti casi hanno alle spalle genitori e modelli genitoriali di riferimento a loro volta de-connessi e quindi polarizzati sulla prestazione più che sulla relazione. Spesso incontriamo nella stanza di analisi un materno ‘prestazionale’ e ‘animoso’ che da un lato si esprime in una dimensione concretistica, ansiosa e organizzativa e dall’altro perde la capacità di accoglienza. Sembra che finché i figli vanno bene a scuola, eccellono nello sport o trovano ‘un buon lavoro’ vada tutto bene, diversamente il senso di fallimento e la rabbia prendono il sopravvento. Alle spalle di questo livello di riferimento prestazionale spessissimo non solo l’accoglienza, ma anche il rispecchiamento e la regolazione emotiva sono carenti. Non è un caso, allora, che il mondo virtuale tra i giovani la faccia da padrone perché nel ‘qui e ora’ del web c’è tutto quel ‘là e allora’ di un holding carente che non solo ha contribuito alla de-connessione della vita interiore di questi ragazzi, ma che rappresenta per molti di essi l’unico paradigma relazionale noto e possibile.

E come esprimono il loro disagio questi giovani uomini e giovani donne? Principalmente con il linguaggio del corpo (come sopra descritto); è così, infatti, che portano i loro vissuti all’analista che finisce spesso per sentirsi sotto scacco, dato che, costretto ad aderire al racconto di fatti e di eventi di vita quotidiana spesso poco colorati affettivamente, il suo ‘pensare analitico’ viene frustrato. Deve stare più che pensare e questo lo costringe anche a fare i conti con l’urgenza di soccorrere che oltretutto, di fronte ad una persona giovane e in difficoltà, si attiva ancora più rapidamente e intensamente. Stare significa confrontarsi con la lingua del paziente che, soprattutto nelle prime fasi, è faticosa, perché oscura e spesso ambivalente. Per poterne cogliere tutto il senso si rende allora necessaria una traduzione e l’interprete non può che essere l’analista che, camminando senza sosta tra i due registri linguistici, quello del paziente e il suo, è chiamato a tradurre un frammento alla volta, in alcuni casi senza nemmeno poterne cogliere subito il significato profondo e a pazientare prima di poter comporre il puzzle che gli darà un quadro sintetico ed esplicativo. Accogliere, aspettare, ascoltare, rispecchiare, non giudicare, sono parti preziose di questa operazione di ri-connessione, di ri-costruzione semantica del mondo interno del paziente che, seduta dopo seduta, fatto dopo fatto raccontato, sperimenta la possibilità di connettersi con i suoi vissuti, appropriandosi finalmente delle emozioni che non solo diventano dicibili, ma si mettono a disposizione come carburante per nuove mosse evolutive.

E non è tutto, c’è un ulteriore elemento che partecipa attivamente al processo analitico e cioè la stanza della terapia che in un certo senso amplifica il processo di connessione della diade. Se ci facciamo caso, infatti, rispetto ad un mondo iperconnesso, il setting è l’unico luogo dove la rete tace, i telefoni vengono spenti, il computer non esiste; grazie a ciò nella stanza di analisi l’iperconnesso è tagliato fuori e tutta la de-connessione può emergere nella sua tragicità; la presenza di uno spazio materico, allora, materico nel senso di mater (materno), diviene centrale perché consente al paziente di sentire sul e nel corpo la presenza dell’altro, rendendola cosa viva e vitalizzante. Si attiva una vibrazione nuova, come se il setting si comportasse da cassa armonica capace di rendere coerenti le due frequenze psichiche di analista e paziente e di trasformare l’interazione in musica con melodia, tono e ritmo tutti suoi, unica per ciascuna diade.

Questa immagine può trovare conferma nel fatto che durante la pandemia molti ragazzi in cura si sono categoricamente rifiutati di fare terapia on line, cosa che ad una prima occhiata potrebbe sembrare un nonsense visto l’ampio uso delle comunicazioni virtuali, ma che, invece, alla luce di quanto appena detto, assume tutta la sua valenza simbolica.

Ristabilire la connessione intra e inter psichica diventa, allora, un obiettivo terapeutico di fondamentale importanza ma anche un lavoro complesso che richiede un assetto interpretativo dedicato e delicato che più che spiegare, in senso intellettuale, forse si deve orientare al comprendere in senso affettivo (da cum prendere, cioè prendere insieme, ancora una volta connettere parti diverse in un unicum nuovo e vitale), restituendo al paziente una immagine integrata di sé. Le immagini che questi pazienti de-connessi portano sono spesso, infatti, a loro volta disconnesse e comunque rare. Di norma arrivano pochi sogni e quelli presenti sono scarsamente articolati e poveri di densità emotiva, anche le fantasie sono spesso appiattite su aspetti concreti; diventa quindi necessario cogliere le forme psichiche e le immagini che le contengono in altro, nei dettagli, ad esempio, o in racconti all’apparenza banali, o nei piccoli agiti che riguardano il setting come spostamenti di orario, sedute saltate o non pagate, etc. Non è detto, ad esempio, che questi ultimi significhino necessariamente un tentativo di rottura ma a volte sono una manipolazione, nel senso di dare forma con le mani, come un tentativo di rivendicare se stessi nell’unica lingua nota, cioè attraverso il corpo e i suoi schemi motori. E credo che sia proprio lì, in questi spazi angusti, che noi analisti siamo chiamati a interpretare, il più delle volte silenziosamente, l’immagine che si forma dentro di noi, a darle un senso simbolico, rapportandola e riportandola all’immagine stessa che abbiamo del paziente. Partendo quindi ‘dal basso’, dai frammenti, dal de-connesso per poter riattivare il polo simbolico di una dimensione mercuriale unilateralizzata nel suo versante diabolico, quello che scinde, che recide le connessioni tra le componenti dell’esperienza, al terapeuta si presenta un lavoro lungo e difficile in cui resistere costantemente alle spinte disgregatrici che la de-connessione porta con sé, facendo i conti con vissuti controtransferali spiacevoli, come noia, rabbia, desiderio di espulsione, senso di incompetenza o inutilità. Tutti vissuti rispetto ai quali rischia di reagire con atteggiamenti distanzianti, intellettualizzati, supponenti o evacuativi. In più, mentre da un lato deve fare un continuo lavoro di ricucitura, di ritessitura delle profonde lacerazioni, quasi restringendo lo spazio analitico e sentendosi perciò a volte soffocato o limitato, dall’altro è indispensabile che dilati lo spazio stesso per poter accogliere il paziente e dargli la possibilità di sentirsi.

È evidente, quindi, come trovare un equilibrio stabile, una ‘giusta formula’, un assetto ben definito, sia veramente arduo e quanto, invece, sia necessario rinunciare ad alcune certezze e aggiustare continuamente il tiro, bilanciando la necessità di stare con il desiderio di agire (in senso analitico). Un po’ come un funambolo che, sospeso a decine di metri dal suolo, deve valutare attentamente ogni piccolo passo, tastare la corda, sentire l’equilibrio, fare anche un passo indietro, se necessario.

Concludo, quindi, con alcune parole di Jung tratte da Principi di Psicoterapia che mi sembra amplifichino, racchiudano e chiariscano, molto meglio di quanto abbia tentato di fare io, questo possibile approccio:

Se voglio curare la psiche di un individuo devo, volente o nolente, rinunciare a ogni saccenteria, a ogni autorità, a ogni desiderio di esercitare la mia influenza; devo necessariamente seguire un procedimento dialettico consistente in una comparazione dei nostri reciproci dati. Ma questo confronto sarà possibile soltanto se darò all’altro la possibilità di presentare il più perfettamente possibile il suo materiale senza limitarlo con i miei presupposti. Il suo sistema entrerà così in relazione con il mio e agirà su di esso. Questa azione è l’unica cosa che io, in quanto individuo, possa legittimamente contrapporre al paziente (Jung 1935, p. 9).

Bibliografia

  • Jung C.G. 1935, Principi di psicoterapia pratica, in OCGJ, vol. 16, Bollati Boringhieri, Torino 1981.
  • Jung C.G. 1916/1948, Considerazioni generali sulla psicologia del sogno, in OCGJ, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 1976.
  • Jung C.G. 1916/1957, La funzione trascendente, in OCGJ, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 1976.
  • Trevi M. 1995, Il problema del simbolo, in Aversa L. (a cura di), Fondamenti di psicologia analitica, Laterza, Bari.
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