
2022 Nuova Serie Numero 3 A Tema
A CURA DELLA REDAZIONE Se si dovesse sintetizzare in cosa si esprime l’essenza e lo specifico dell’attività di cura della psiche, si potrebbe riassumerla nel suo continuo ‘stare tra’: Logos ed Eros, esperienza della relazione e possibilità di riflessione, pratica clinica e teoria. La rubrica a tema si pone come uno spazio di confronto, di espressione ed elaborazione di tutte le tematiche che partendo dalla pratica clinica evolvono in visioni della psiche, favorendo la possibilità di mantenere continuamente viva una sospensione che si interroga.
Immaginazione, fantasia, sogno, metafora nella costruzione dello spazio analitico intersoggettivo
Chi conosce se stesso conosce il suo Signore
(hadīth del Profeta)
Analisi della relazione e dialogo analitico
La crescente diffusione delle terapie online ha spinto a chiedersi quale sia il fondamento, il nucleo vitale, l’essenza del processo terapeutico, ovvero le sue invarianti, che gli permettono di rimanere tale nonostante i numerosi stravolgimenti cui è andato incontro, e di cui le sedute su Internet non sono che l’ultimo esempio. Secondo Craparo (2020) ciò che rende specifico il processo analitico e che si mantiene nelle terapie online è l’esperienza di terzietà, che egli riprende da Ogden (1997), il quale intende per terzo analitico intersoggettivo o semplicemente terzo analitico la dimensione congiunta che è data dall’interazione delle personalità di paziente e analista e che è una sorta di terzo soggetto generato dallo scambio conscio e inconscio tra loro due, tramite il quale si realizza la creazione di un’area intermedia, di uno spazio potenziale, un luogo di finzione sospeso tra la realtà e l’immaginazione, dove possano darsi il gioco, la fantasia, la scoperta, la creatività, il rischio, la sperimentazione di aspetti inesplorati di se stessi. In essa si dà la comprensione del paziente a livelli profondi, tramite il processo di reciproca attivazione di fantasie tra paziente e analista, e si rende possibile la trasformazione terapeutica. Nella costituzione del terzo soggetto, esso ha proprietà che risultano dall’incontro degli altri due, il paziente e l’analista, ma in qualche modo si emancipa da essi. Un sistema autonomo, dunque, un tutto che è più della somma delle parti, con qualità emergenti che permettono al dialogo analitico di evolvere verso quello che è il suo fine, ovvero, a seconda dei punti di vista, l’individuazione, il raggiungimento di una piena e consapevole padronanza di sé, l’autorealizzazione, la capacità di amare e di soffrire restando se stesso, il superamento di perdite, lutti, separazioni senza restarne sminuito ma anzi accresciuto nelle proprie acquisizioni, o con Mitchell (1998) l’espansione della personalità ampliando i ricordi del passato, la consapevolezza della complessità del funzionamento nel presente e le opzioni per il futuro. Lo spazio intersoggettivo si costruisce attraverso quello che Jung designa come «una sorta di ‘procedimento dialettico’, un dialogo, un confronto tra due persone […] un processo creativo di nuove sintesi» (1935, p. 7), tema ripreso da Trevi (1987) che lo riporta all’ermeneusi infinita di Gadamer, in cui «l’arte del domandare è l’arte di domandare ancora» (1960, p. 424), e ogni risposta interpella l’altro con una nuova domanda, in un circolo inesauribile.
Con la messa in discussione del modello strutturale delle pulsioni di fronte all’ammissione che la pulsione stessa è rivolta ineludibilmente alla relazione con l’oggetto, e la nascita quindi della teoria delle relazioni oggettuali, anche la psicoanalisi ha riservato a queste ultime una crescente attenzione. Da qui il confronto con la psicologia interpersonale sullivaniana, con la nascita di un movimento trasversale a varie scuole, la prospettiva relazionale, e infine l’orientamento revisionista della psicoanalisi americana, tendenze tutte quante focalizzate sull’interazione interna ed esterna che si instaura tra paziente e analista e che rende possibile la trasformazione terapeutica.
Il dibattito sul controtransfert
Il movimento di valorizzazione della persona dell’analista nel processo terapeutico emerge già nel sistema kleiniano, a partire dall’articolo in cui la Heimann (1950) sostiene che l’uso del controtransfert è essenziale per il lavoro dell’analista, e può essere uno strumento di ricerca nell’inconscio del paziente, ampliandone il concetto non solo alla risposta al transfert, ma a tutte le emozioni che l’analista sperimenta verso il paziente, senza limitarlo alle componenti patologiche della sua risposta, e che quindi egli deve essere in grado di sostenere e tollerare, anziché espellere, in modo da subordinarle al lavoro analitico; anche perché nel circuito transfert-controtransfert avvengono comunicazioni da inconscio a inconscio.
Ben presto emerge la contrapposizione tra:
- la posizione classica, secondo la quale il controtransfert rappresenterebbe sostanzialmente un ostacolo alla realizzazione di una relazione analitica ideale, in cui l’analista deve essere opaco come la lastra di uno specchio che rimanda al paziente la sua immagine (Freud 1912), e funziona come osservatore neutrale di quest’ultimo, considerato l’oggetto da conoscere, separato dal soggetto;
- la posizione interazionale, per la quale i vissuti controtransferali possono rappresentare una fonte preziosa e privilegiata per approfondire la conoscenza delle dinamiche transferali.
Questo secondo modo di intendere e utilizzare il controtransfert modifica sostanzialmente la concezione stessa della situazione analitica, che viene sempre più considerata un circuito interattivo, una trama fittissima, variamente intessuta, di azioni e reazioni, consce e inconsce. Al mantenimento di questo tessuto relazionale contribuisce fortemente il fenomeno dell’identificazione proiettiva. Essa è una difesa inconscia, primitiva, aggressivamente autoconservativa, che comprende due stadi, la scissione di un contenuto interno della mente e la sua proiezione in un oggetto esterno, in seguito ai quali il soggetto si scinde e si libera di un contenuto mentale indesiderato o inammissibile e allo stesso tempo controlla l’oggetto in cui lo proietta. L’altro viene caricato delle valenze dell’oggetto interno in esso depositato, e quindi viene identificato con l’aspetto scisso. Se però è l’analista, non può limitarsi a recepire i contenuti scissi e proiettati, ma deve svolgere il ruolo di contenitore attivo che li metabolizzi, li elabori e li restituisca depurati e resi pensabili al paziente.
Racker (1968) tratta la parte attiva che svolgono questi processi nel lavoro terapeutico.
Egli distingue tra:
- il controtransfert concordante od omologo, in cui l’analista si immedesima con parti corrispondenti dell’apparato psichico del paziente (l’Io, l’Es, il Super-io), empatizzando con esse;
- il controtransfert complementare, in cui l’analista si identifica con gli oggetti interni del paziente, ovvero con un’immagine interiore del Super-io o del Sé che il paziente non può tollerare, e deve perciò scindere e proiettare.
Il circuito transfert-controtransfert svolge un ruolo centrale nell’interruzione dei circoli relazionali disfunzionali alla radice della sofferenza psicologica: il paziente tratta l’analista come l’oggetto interno in lui proiettato, e lo induce a comportarsi come tale, cosa che del resto accade nella vita reale con gli altri significativi; ma l’analista interrompe questo circolo vizioso comprendendolo e interpretandolo al paziente. Attraverso dei segnali non verbali, il paziente arriva a indurre nell’analista i comportamenti attribuiti alla parte proiettata, e l’analista si sente invaso da questa esperienza emotiva, giungendo a sentirla come propria, e quindi a identificarsi con l’oggetto interno del paziente proiettato, e addirittura a essere pressato a impegnarsi in agiti controproiettivi nei confronti del paziente. Tuttavia egli deve rivolgersi a questi contenuti con atteggiamento analitico, che consiste nel comprendere e interpretare anziché agire. Il circolo vizioso relazionale che tiene il paziente imprigionato nelle situazioni emotive della sua infanzia si risolve così attraverso l’interpretazione delle vicissitudini della relazione terapeutica, di cui il controtransfert è un ingrediente essenziale.
Se la risposta dell’analista è data anche dalla sua personalità e dalla sua storia, il problema diventa allora quello di discriminare tra ciò che sorge nella sua esperienza in risposta al paziente, e ciò che è dovuto invece al riaffiorare dei suoi conflitti irrisolti. Pertanto Grinberg (1982) separa:
- la controidentificazione, che è la reazione emotiva che insorge nell’analista indipendentemente dai suoi conflitti interni, in risposta all’identificazione proiettiva del paziente. L’origine del processo è nel paziente, e non nell’analista, ossia è lui che, attraverso una modalità arcaica, inconscia e regressiva, provoca attivamente una risposta emotiva nell’analista, che questi riceve e avverte in maniera passiva. È interamente una produzione nel paziente, ed è l’esperienza che l’analista fa attraverso la sua mente dei contenuti interni proiettativi dal paziente. Quindi è un qualcosa di oggettivo, ovvero indipendente dall’analista, e universale, nel senso che analisti differenti dovrebbero con uno stesso paziente sperimentarla egualmente;
- il controtransfert, dove invece la reazione insorge primitivamente nell’analista, seppur in risposta ad un evento transferale, ed egli non ha il ruolo di mero contenitore passivo delle emozioni o degli oggetti interni del paziente, ma reagisce attivamente in corrispondenza dei suoi conflitti personali non È un fenomeno da attribuire alla soggettività dell’analista e in sostanza un residuo dei suoi conflitti irrisolti. Se l’analista non si rende conto della parte che mette in atto nella ripetizione dei circoli viziosi relazionali del paziente, ne è bloccato e non può scioglierli tramite l’interpretazione.
Persona dell’analista e prospettiva bi-personale
L’affermarsi di una visione interattiva del processo va di pari passo con la considerazione della persona dell’analista quale partecipante al processo stesso. Nella psicoanalisi nordamericana, Gill (1984) parla di passare da una percezione della situazione analitica a una persona a una percezione a due persone, poiché l’esperienza che il paziente ha dello psicoanalista non è solo dovuta alla distorsione operata dalle sue proiezioni transferali, ma è anche opera del continuo sforzo di costruzione che il paziente fa della sua persona ricombinando i vissuti transferali con gli elementi di realtà. La manifestazione del transfert è sempre influenzata dal qui-e-ora della situazione analitica, ma nel corso di tale interazione il paziente coglie degli elementi di verosimiglianza nel suo sforzo di decifrazione della figura dell’analista, anche se non sempre l’analista è consapevole del ruolo che egli gioca nell’elicitare le risposte transferali rispetto ai dati oggettivi del setting; tanto che l’analisi si conclude quando il paziente consegue una percezione realistica della figura dell’analista, avendo elaborato esaurientemente le proiezioni indotte su di lui dai suoi conflitti infantili non risolti. La relazione interpersonale reale corre parallela alla relazione terapeutica, fa vivere al paziente in modo nuovo le sue dinamiche relazionali disfunzionali ed è alla base di un incontro autentico con l’analista.
Per Mitchell (1998) fa parte della visione mono-personale descrivere l’analista come un contenitore anonimo e negare la sua partecipazione, interpretando la sua esperienza come se fosse l’esperienza del paziente proiettata su di lui. Questa visione fa parte dell’oggettivismo derivato dallo scientismo, ovvero dalla convinzione che la scienza possa fornire le risposte a tutti gli interrogativi sul significato e sul valore della vita. Ad essa si contrappone la posizione prospettivistica, secondo la quale non esiste una singola interpretazione corretta né una singola congettura migliore di altre. La consapevolezza sorge solo attraverso atti di costruzione di altri o, mediante l’autoriflessione, propri. Della mente non esiste un prototipo oggettivamente distinguibile che l’analista è in grado di identificare, ma piuttosto, con Dennett (1991), l’edizione o la stesura sempre provvisoria cui si arriva è in parte un prodotto del processo stesso attraverso cui viene essa creata. La mente è un insieme enormemente complesso di processi di cui ognuno, anche il soggetto, può afferrare solo un piccolo segmento: di essa non può esistere una versione singola o ufficiale rispetto alla quale avere ragione o torto. Gli eventi al suo interno sono conoscibili sia dall’analista che dal paziente solo attraverso il processo in cui vengono sistemati e organizzati; i modi in cui ciò può avvenire sono molti, ma l’ipotesi migliore non esiste. Ogni comprensione della mente è personale: quella di uno specifico analista è immersa nella sua esperienza e nel contesto delle configurazioni di transfert e controtransfert. Pertanto l’autorità dell’analista non poggia su un indiscutibile sapere oggettivo, ma sulla partecipazione a una comune impresa di costruzione di significato reciprocamente validata.
L’idea di una mente bi-personale è supportata anche dall’infant research. Tronick (2008) parla di coscienza intersoggettiva, o coscienza diadica estesa, osservata nella relazione madre-bambino. Essa è data dal reciproco rispecchiamento e dalla condivisione degli stati mentali, che avviene nell’esperienza intersoggettiva, e coinvolge non solo la mente, ma anche il corpo, attraverso l’attivazione dei neuroni specchio e il fenomeno dell’empatia. I neuroni specchio concorrono tramite dei processi di feedback tra emozioni del bambino e espressioni del volto della madre alla reciproca induzione e alla comprensione degli stati mentali condivisi della comunicazione intersoggettiva non verbale. Madre-bambino e paziente-analista danno forma al campo intersoggettivo della conoscenza relazionale implicita, nella quale si riattivano esperienze arcaiche non verbali del paziente, risalenti alla regolazione diadica interattiva col fornitore di cure, che sono depositate nella memoria procedurale e non sono accessibili alla coscienza, ma sono alla base del peculiare stile relazionale del paziente e recano l’impronta del suo temperamento.
Corrispondenze trasversali
Jung (1946) parla a proposito del coinvolgimento dell’analista e del reciproco influenzamento col paziente di contagio psichico e dedica il suo interesse alle fantasie che la relazione transferale suscita in entrambi, applicandovi come chiave interpretativa le fasi dell’opus alchemico, poiché l’immersione nelle vicissitudini del transfert equivale a una esperienza trasformativa di morte e rinascita. L’analisi suscita quindi l’attivazione di fantasie archetipiche che rappresentano un’esperienza condivisa della coppia analitica.
Winnicott (1951) parla dello spazio transizionale come di un’area intermedia, dove hanno luogo il processo terapeutico e il cambiamento ad esso associato; essa è un’area di gioco, improvvisazione, libertà e immaginazione, che rappresenta una vera e propria entità altra rispetto alle personalità del paziente e dell’analista, essendo data dalla loro interazione.
La comprensione del paziente a livelli profondi avviene tramite il processo di reciproca attivazione di fantasie tra paziente e analista. Bion ha dato a questo stato di libera fluttuazione consonante delle menti del paziente e dell’analista il nome di rêverie, che «sta a designare lo stato mentale aperto alla ricezione di tutti gli ‘oggetti’ provenienti dall’oggetto amato» (Bion 1962, p. 73). Il corrispettivo delle libere associazioni del paziente è nell’analista l’attenzione liberamente fluttuante, e queste disposizioni reciprocamente interconnesse mettono in essere una recettività verso le produzioni immaginative inconsce suscitate dalle vicissitudini della relazione.
Schwartz-Salant (1986) riprende dall’islamista Corbin l’espressione di mundus imaginalis (alam-al-mithal), per descrivere uno spazio condiviso, un campo d’energia quasi concreto che si crea tra paziente e analista, come un’aura che partecipa delle qualità psichiche di entrambi. È una produzione analoga all’immaginazione attiva, solo che è opera di due persone, una realtà intermedia, co-costruita, abitata dai corpi sottili, nella quale sono sospesi i parametri ordinari di spazio, tempo e causalità e vige una dimensione archetipica, sincronica, religiosa (1990).
Anche Samuels (1989) parla di mundus imaginalis per descrivere i fenomeni che avvengono nel circuito transfert-controtransfert, costituiti da risposte corporee e comportamentali, fantasie, emozioni, intendendo con Corbin un livello di realtà definito da un certo tipo di percezione (i sensi sottili del soprasensibile) e di esperienza (le visioni mistiche di Hûrqalyâ, la ‘terra di nessun dove’) propri della teosofia visionaria della mistica islamica. È un ambito intermedio che si trova tra le idee eterne astratte dell’intelletto puro e il mondo materiale, un livello di esperienza comprendente sia il circuito interattivo di fantasie reciprocamente condivise che si produce nel processo terapeutico che il corpo dell’analista, il quale ne entra a far parte e diventa in certi momenti un corpo sottile, un’entità sospesa, una realtà condivisa che non è più proprietà esclusiva di lui ma veicola messaggi che sono rivolti a entrambi i membri della coppia terapeutica; si tratta di visioni corporee, sì che si può parlare di controtransfert personificato.
Il terzo analitico intersoggettivo: un ambito intermedio di fantasie condivise
Ogden (1997) chiama questa entità altra che è data dall’interazione delle personalità di paziente e analista il terzo analitico intersoggettivo, o semplicemente il terzo analitico, intendendo una sorta di terzo soggetto generato dallo scambio inconscio tra loro due. Esso sta in tensione dinamica con le loro soggettività individuali, e viene percepito attraverso di esse, e quindi non è una esperienza identica per ciascuno dei due. Sebbene sia privilegiata l’esperienza inconscia dell’analizzando, anche l’inconscio dell’analista può attivarsi entrando in risonanza con l’inconscio del paziente attraverso il processo dell’identificazione proiettiva. In tal modo si realizza lo scopo della cura analitica che è rivivere i circoli viziosi relazionali del paziente in un contesto dove possono essere compresi e modificati. La rêverie, il fantasticare, o addirittura il sognare insieme di analista e paziente richiedono uno stato mentale di particolare recettività, per ottenere il quale, secondo Ogden, Freud ha introdotto l’uso del lettino; esso infatti consente all’analista la riservatezza necessaria onde potersi abbandonare al flusso dei pensieri inconsci che suscita in lui la risonanza con l’inconscio del paziente. Specularmente l’analizzando può sperimentare una analoga tregua dall’essere fissato su alcunché e abbandonarsi alle libere associazioni, corrispettivo dell’attenzione liberamente fluttuante dell’analista. L’analista deve quindi avere accesso al suo dialogo interno, al flusso ininterrotto dei suoi pensieri che si sviluppano in maniera consapevole. Ogden le chiama appunto conversazioni ai confini del sogno, perché si presentano come sogno durante il sonno e come rêverie durante la veglia, e le rêverie dell’analista sono i suoi sogni da sveglio. Esse richiedono uno stato mentale che si svolge non solo ai confini tra il sonno e la veglia, ma anche a quelli tra il preconscio e l’inconscio, dove si colloca appunto il nucleo dell’esperienza vitale dell’individuo. È il luogo dove ha origine ogni tipo di gioco e di produzione creativa, dove germogliano la conversazione, il gesto creativo, la brillantezza, la poesia, lo sguardo intrigante, il fascino, e anche le formazioni sintomatiche di compromesso che spendono il lavoro dell’intelligenza per tormentare i pazienti; ma anche dove albergano gli elementi beta di Bion e l’Es di Freud e di Groddeck, con la sua espressività somatica. Quindi un campo di forze spumeggianti, in ebollizione, che attendono di essere raccolte e indirizzate, o alla peggio di esplodere. Ogden dice che «il confine del sogno è un campo di forze psicologiche traboccante di impulsi liberatori, addomesticanti, ordinativi, ripieganti, fecondativi e versificanti» (2001, p. 109). E infatti egli propone per la comprensione e il migliore utilizzo di questo linguaggio l’analogia con la metafora poetica.
Questo momento creativo che precede l’atto di parlare, dipingere, scrivere, scolpire, creare è una condizione di attesa, di sospensione che però non è priva di affetti, anzi è ricolma di desideri, bisogni, spinte a dar voce a qualcosa di inarticolato e di cogente. Infatti una volta che l’impulso è fermato e inquadrato viene ucciso, e da simbolo vivo diviene simbolo morto (Trevi 1987). Per questo nel contatto analitico con il pensiero del paziente Bion suggerisce di «trattenersi dalla memoria e dal desiderio» (1970, p. 46), che vuol dire potersi distaccare dalla personalità cosciente, dalla sensorialità, dal tempo e dallo spazio e infine dalle teorie e dalla formazione analitica, per raggiungere uno stato di attenzione fluttuante e di rêverie che sintetizza lo stato di recettività necessario per avvicinarsi alla verità dell’hic et nunc della seduta. È una specie di stato meditativo, di epochè husserliana, che fenomenicamente corrisponde a un rimpicciolimento e a un arretramento progressivo dell’Io con le sue credenze, pregiudizi e aspettative, fino al punto da permettere un vuoto, un là (né spaziale né temporale) dove il pensiero non-ancora-sognato del paziente (Pensiero alla Ricerca di un Pensatore) si può incontrare con il pensiero-sogno (o rêverie) dell’analista.
In questa condizione analista e paziente possono udire più distintamente le conversazioni che intrattengono con se stessi al confine tra inconscio e preconscio. Sì, perché i sogni e le rêverie prodotti da analista e paziente ai confini del sogno derivano non solo dalle esperienze inconsce di entrambi, ma riguardano anche le esperienze inconsce che la coppia analitica costruisce congiuntamente seppur asimmetricamente. Questa costruzione intersoggettiva inconscia è il terzo analitico, il terzo soggetto che si genera in analisi e assume vita propria, come l’homunculus, l’androgino alchemico prodotto dalle nuptiae chymicae tra rex e regina. Quindi i sogni e le rêverie, che sono qualcosa di strettamente individuale, cessano di essere tale per diventare una creazione congiunta, data dall’attività del terzo analitico.
L’impego della metafora poetica per comprendere il prodotto dell’attività del terzo analitico è giustificato dal fatto che essa si occupa eminentemente di relazioni. Innanzitutto queste riguardano aspetti dell’esperienza conscia intimamente collegati con quella inconscia. E poi perché descrivono le dinamiche esistenti tra il Sé e un oggetto interno, o tra due o più parti del Sé o dell’oggetto. Con la metafora si dice una cosa e se ne intende un’altra; nella metafora io descrivo me in modo che possa vedere me stesso. Attraverso l’insight e la metafora viene facilitata l’esperienza di sé in un oggetto che può essere visto. In tal modo si dà sostanza al Sé in quanto oggetto osservato e all’Io in quanto soggetto osservante. La rêverie è un processo in cui si creano metafore che conferiscono forma all’esperienza analitica. L’esperienza inconscia può esser vista quando la si rappresenta metaforicamente a se stessi (Ogden 2021).
Le presenze psichiche
Grotstein (2000) distingue la transidentificazione, che consiste nella proiezione di contenuti interni che avviene sulle figure della realtà deformandoli, dall’identificazione proiettiva vera e propria, che è esclusivamente un fenomeno intrapsichico, e quindi si attua sugli oggetti interni ubicati dentro la mente. Con essa si formano le chimere, costrutti complessi in cui ad esempio l’immagine della madre come oggetto viene mescolata con gli aspetti della soggettività del bambino, che possono essere autoctoni, ossia autocreati dal soggetto a partire dal suo patrimonio istintuale-affettivo ereditario, oppure co-creati (creati attraverso l’altro), che vuol dire reintroiettati entro l’immagine dell’oggetto attraverso il circuito dell’identificazione proiettiva. In tal modo i luoghi metaforici intersoggettivi, le fantasie e i sogni, vengono abitati dalle presenze psichiche: entità psichiche preternaturali – che vuol dire che esistono al di fuori o al di là dal corso naturale delle cose – che sono facenti parte di quella che Bion chiama O, la realtà in sé, ed evolvono in immagini simboliche che designano la presenza dell’assenza. In questo modo si creano dei veri e propri mostri ibridi, oggetti soggettivizzati, soggettività grezze prodotte dal ritorno delle proprie parti soggettive non metabolizzate dal contenitore materno, alienate e reintroiettate; quindi cariche di valenze persecutorie e in grado di suscitare nel soggetto ansie paranoidi. Nella fantasia inconscia sono proiettate sugli oggetti reali, e da queste riproiettate nella mente, costituendo gli oggetti interni, che sono conglomerazioni chimeriche (ibride) dell’immagine dell’oggetto reale frammiste ai prodotti della scissione e dell’identificazione proiettiva del soggetto; mentre negli strati più profondi dell’inconscio costituiscono la materia con cui il Sognatore che Sogna il Sogno costruisce il sogno cui assiste il Sognatore che Comprende il Sogno. In realtà il lavoro di proiezione della fantasia inconscia sugli oggetti reali e quello di costruzione del sogno sono la stessa cosa, e quindi in senso più allargato si deve parlare dell’Ineffabile Soggetto dell’Inconscio (attivo) e del Soggetto Fenomenico della Coscienza (recettivo). Sono tutte quante presenze psichiche, che si costituiscono all’interno di quel dialogo che la mente instaura con se stessa. Esse sono evidenziate, esplicitate e validate dal processo psicoanalitico. Vi è continuità tra lavoro del sogno e lavoro che la fantasia inconscia effettua durante la veglia sugli oggetti reali: entrambi attualizzano, di volta in volta nei mondi della realtà, della fantasia e del sogno, le esperienze significative, costitutive, evolutive del soggetto.
Il Sognatore che Sogna il Sogno e l’Ineffabile Soggetto dell’Inconscio che opera la drammaturgia nel teatro del reale sono uno sviluppo della Presenza di Fondo dell’identificazione primaria, l’oggetto-madre idealizzato delle origini, l’ambiente-madre di Winnicott (1963), che è collegato con O, il noumeno inconoscibile, la realtà in sé, e che si manifesta come elementi beta non mentalizzati in attesa che la funzione alfa li traduca in significati. A esso ci si può avvicinare tramite la funzione K (knowledge, conoscenza), che porta agli elementi alfa, e ai pensieri onirici, ai sogni, ai miti. O può essere visto come la Presenza di Fondo che esorta il Sé ad aumentare la propria consapevolezza ed esperienza. Anche tra il Sognatore che Sogna il Sogno e il Sognatore che Comprende il Sogno, e tra l’Ineffabile Soggetto dell’Inconscio e il Soggetto Fenomenico della Coscienza si costituisce una situazione di terzietà, uno spazio intermedio, una terza area di incontro che rappresenta un amalgama di ogni partecipante ad esso. Essa è per Grotstein soggiogante, perché i due partecipanti vengono perseguitati da un demone precedentemente costituito. Anche perché la terza entità misteriosa è la soggettività ulteriore della relazione stessa, colei che organizza, definisce, dirige, controlla e soggioga ognuno dei partecipanti, i quali a loro volta si ritrovano ad agire secondo un copione o una coreografia che non sanno di seguire, tanto da rimanere disorientati dal modo in cui agiscono e proiettano sull’altro partecipante. Perché le due soggettività di cui sopra sono espressione entrambe di un Soggetto Sopraordinato dell’Essere e dell’Azione, o Soggetto Ineffabile dell’Esperienza, e ciò che le caratterizza è un’incompletezza che richiama a ognuna la necessità dell’altra – entrambe hanno bisogno una dell’altra – e dell’oggetto esterno. Al sistema inconscio manca la coscienza e la capacità di autoriflessione, al sistema conscio manca l’accesso alla realtà ultima. Insieme questi due soggetti complementari si rappresentano l’intero. La trasformazione da O a K può condurre – attraverso il percorso dell’autoriflessione e il contatto con il soggetto dell’essere – di nuovo a O, ossia a essere sempre più auto-trascendenti e accoglienti nei confronti del proprio essere, della propria soggettività, delle proprie esperienze e della responsabilità psichica verso di esse. Per Grotstein questo ‘essere uno con l’esperienza’ è ciò che Bion indica con trasformazioni in O, e che costituisce l’obiettivo ultimo dell’analisi.
Trasformazioni in O e divenire O
O è un segno vuoto usato da Bion (1965, 1970) che indica una penombra di associazioni che permette di indicare un’esperienza intima e inaccessibile, la realtà emotiva estrema di una seduta psicoanalitica e l’essenza di un individuo, il risultato finale di una serie di trasformazioni, un tondo-cerchio-ritmo della vita, l’apertura (Opening), l’impatto-mistero dell’altro (Other). Si avvicina al significato più profondo del simbolo in Jung, che è appunto qualcosa che si può non descrivere ma solo circoscrivere, «la migliore espressione possibile in quel determinato momento per un dato di fatto sino ad allora sconosciuto o conosciuto solo in parte» (1921, 526). O, oppure il simbolo, possono essere interpretati come una realtà parallela senza categorie, che quindi non può essere compresa dalla ragione, ma neppure dalla fantasia o dall’immaginazione. O è l’Assoluto, in ragione della sua natura infinita, Ananchè (la Necessità), la Realtà Ultima, la Verità Assoluta (il bene e il male), l’Infinito, gli elementi beta, le cose il sé, il noumeno kantiano (contrapposto al fenomeno, ciò che si esperisce), le Idee Eterne di Platone, la mente divina, l’oggetto analitico di Bion, la vita reale, i qualia (le qualità ultime e irriducibili della percezione), il dominio dell’ineffabile e dell’imperscrutabile, il concetto ultimo dell’oggetto e del Sé incarnato come divinità, la quintessenza dell’Essere, la nuvola dell’Ignoto, la saggezza intuitiva che consente di accedere alla conoscenza suprema (prajna) e che si consegue attraverso la meditazione profonda (dhyana). O evolve, è sempre in mutamento, ed è essenziale la trasformazione da O impersonale a O personale-emozionale. Quindi non è identificazione o interpretazione, ma risonanza emotiva con essa o con l’esperienza che l’altro ha di essa. È la quintessenza dei fenomeni controtransferali sublimati, la preoccupazione materna primaria di Winnicott (1963). Ogni oggetto diviene O per lo psicoanalista quando si evolve in modo tale da essere incontrato dalle sue capacità K. O non può essere conosciuto, può solo essere vissuto, anzi divenuto, usando il verbo divenire in senso transitivo, e come il platonico continuo e mai compiuto divenire. La sua realtà non può essere colta, afferrata dai sensi o compresa: nelle trasformazioni in O, si può passare da O a K, ossia si può conoscere un’esperienza dopo averla vissuta, ma non viceversa, ossia non si può giungere alla conoscenza di O attraverso i fenomeni.
O ricorda il Brahman della filosofia induista, l’Assoluto Universale, che è sperimentato nel processo introspettivo della coscienza individuale come l’Atman, che è il Sé individuale che di esso è una propaggine. Esso deve essere trasceso in basso, nel proto-mentale, dove psicologico e mentale sono indifferenziati; e in alto, laddove il Sé individuale si dissolve nel Sé universale, nel paradosso della coincidenza tra l’Uno e il Molteplice. Un corrispettivo nella cabala è la prima Sefirah, Keter: essa è la manifestazione nell’umano di En Sof (non-finito), e corrisponde all’uscita dall’Infinito, che non è un vero e proprio uscir fuori, ma solo la spinta con cui Dio rompe la chiusura del proprio ‘in sé’, che di per sé è il Nulla, in quanto non-manifestato, per creare il mondo manifesto. È la più profonda di tutte le luci, l’aura che circonda l’Infinito, l’En Sof Aur, la ‘Luce Senza Limiti’. In questo Nulla divino, che è un Nulla assoluto, si compie la creazione dal Nulla, che è un Nulla relativo (Scholem 1983). Nel mistico persiano Sohravardī, la Luce di Gloria che l’Avesta designa come Xvarnah è la fiamma primordiale fonte di ogni vita, da cui derivano le pure ipostasi angeliche e successivamente tutti gli esseri, e a livello individuale è la maestà fiammeggiante degli esseri di luce e la forza coesiva di ogni essere, il suo fuoco vitale, il suo angelo personale, il suo destino. Si manifesta come l’irradiazione eterna della Luce delle Luci e non si tratta della conoscenza di una rappresentazione esterna, ma della conoscenza della presenza interna di una essenza assolutamente vera, che è come un’illuminazione che l’anima fa sorgere sul suo oggetto in quanto essere di luce: l’anima si rende presente il suo oggetto rendendosi presente a se stessa (Corbin 1964).
Proprio per essere inconcepibile e irrappresentabile il Sé si può conoscere solo per ciò che non è, attraverso il silenzio, la contemplazione e l’adorazione del mistero. In Bion sembra trovare una composizione quella complexio oppositorum tra unità e molteplicità che ha a lungo tormentato Jung. O è un ‘concetto vuoto’, ma un punto essenziale, il luogo-non-luogo di tutte le possibili distinzioni non ancora sviluppate e quindi non ancora suscettibili di coscienza (e, poi, di conoscenza) fintantoché esse non emergono. Questa dimensione adimensionale si pone alla radice di tutto l’esistente, è il non-manifesto che è causa del mondo manifestato, l’ineffabile, la nube della non-conoscenza, perché l’essere umano non ha gli strumenti per conoscerla, e ci si può avvicinare ad essa solo attraverso la docta ignorantia della teologia apofatica o negativa (di Dio si può dire solo ciò che non è) o l’esperienza mistica, che coglie l’unità originaria che sta dietro la molteplicità sensibile, e in cui l’individuo scopre l’autentico nucleo infinito che sta in fondo alla sua anima finita.
Il percorso di conoscenza in analisi
Gli oggetti interni sono intrisi di O: la preconcezione innata è l’oggetto rudimentale che rappresenta O. Il successivo oggetto interno dell’individuo rappresenta la combinazione dell’oggetto esterno percepito più la O che il bambino ha proiettato in esso come contenitore. Nello stato di resa meditativa della madre, ella monitora gli stati della mente del bambino e accetta, sostiene, modula e elabora i grezzi protoaffetti da lui proiettati, traducendoli in pensiero e azione. Il raggiungimento della posizione depressiva, ovvero il compito dell’analisi, è un compito di riparazione dell’oggetto, cioè la depurazione e la restituzione-riparazione-reintegrazione degli oggetti, ritirando le proiezioni e recuperando e riaccendendo la O originaria in essi proiettata. Un oggetto interno consiste sempre di aspetti del soggetto e di immagini dell’individuo esterno in quanto oggetto, ed è questa distinzione che si deve cogliere al di là delle apparenze. Il paziente usa il suo analista come il proprio specchio, così che il suo soggetto interno possa trovarvi il suo riflesso e essere contattato di nuovo. L’analisi è la ricerca di uno svelamento della propria identità, il desiderio di ritrovare e di riunirsi con il proprio vero sé, che altri non è se non il Soggetto Sopraordinato dell’Essere e dell’Azione, o il Soggetto Ineffabile dell’Esperienza, il Sé più profondo che attualizza, nel mondo della fantasia, del sogno e in quello della realtà, le esperienze significative, costitutive, evolutive del soggetto. È, in sostanza, all’espressione e alla realizzazione di questo substrato profondo dell’essere che mira il dialogo analitico. La linea direttrice dell’analisi è la scoperta della verità su se stessi, contro l’opposizione delle forze interne che si oppongono al disvelamento di questa verità, che è comunque una verità emozionale. Ma anche della verità sul mondo, perché a partire dagli alchimisti per via della corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo l’uomo è lo specchio del creato, e la scoperta delle leggi e dell’ordine della creazione avviene a partire da se stessi, come dall’h• adīth (detto attribuito a Maometto) in epigrafe. O sono i pensieri immanenti in quanto oggetto analitico, ovvero i sogni, le libere associazioni, i sintomi, l’oggetto primordiale, che Bion equipara alle preconcezioni innate e delle cose in sé, che vanno intercettati e trans-dotti con l’aiuto della rêverie, del contenimento e della funzione alfa dell’analista a partire dal Pensatore dei Pensieri senza un Pensatore. Pertanto O è anche il primo contenuto della paura di morire del bambino, del terrore senza nome, dell’orrore estremo del represso, rispetto al quale pulsioni, archetipi, sistemi affettivi primari sono i mediatori, i modificatori e i significanti di qualcosa di più profondo e più ampio, che coincide con la Verità Assoluta e la Realtà Ultima, e giungendo alla quale ci si identifica col dio interiore della mistica, la mente divina corporificata, l’incarnazione della divinità, una entità preternaturale e numinosa. Quindi la ricerca della verità diventa la più potente forza motivazionale dell’essere umano, perché la mente dell’uomo ha bisogno di verità come il corpo ha bisogno del cibo e dell’aria, mentre il timore delle sue conseguenze e delle sue realizzazioni diventa la sua resistenza alla conoscenza. Il mito dell’Eden e dell’albero della conoscenza del bene e del male esemplifica questo profondo dilemma. Perché non si può guardare il Volto Divino senza esserne abbagliati.
Bibliografia
- Bion W.R. 1962, trad. it. Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma 1972.
- Bion W.R. 1965, trad. it. Trasformazioni. Il passaggio dall’apprendimento alla crescita, Armando, Roma 1973.
- Bion W.R. 1970, trad. it. Attenzione e interpretazione, Armando, Roma 1973. Corbin H. 1964, trad. it. Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1973. Craparo G. 2020, Psicoanalisi online, Carocci, Roma.
- Dennett D.C. 1991, trad. it. Coscienza. Che cos’è, Rizzoli, Milano 1993.
- Freud S. 1912, Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico, in OSF, vol. 6, Bollati Boringhieri, Torino 1974.
- Gadamer H.G. 1960, trad. it. Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983. Gill M.M. 1984, Psicoanalisi e psicoterapia: una revisione, http://www.psychiatryonline.it/node/2197.
- Grinberg L. 1982, Controtransfert e identificazione proiettiva, in Epstein L. e Feiner A.H. (a cura di), Controtransfert e relazione analitica, Liguori, Napoli 1997.