
2014 Numero 3
Il punctum dell’esperienza e l’etica dell’ascolto analitico
Se, per un verso, non può non colpirci l’ampiezza del raggio esplorativo della riflessione svolta in Jung dopo Jung[1], v’è nel testo di Maria Ilena Marozza un aspetto, a mio avviso, che si staglia sugli altri e che ne può essere assunto come cifra fondativa.
Il percorso riflessivo dell’autrice, così mi sembra, viene a procedere nel senso di una rigorosa sintesi unificatrice fra tre momenti fondamentali che, direi quasi plasticamente, convergono nel letto di un unico fiume: mi riferisco al momento epistemologico, alla cogente spinta a pensare proveniente dalla pratica clinica e al momento della riflessione etica.
Questi tre momenti vero è che sono da sempre il pane quotidiano delle nostre letture e però l’offerta originale che penso ci giunga dal testo in questione è nell’affacciarsi ad essi come a tre momenti che si ritrovano fortemente integrati nel fondarsi su un radicale ripensamento critico del concetto di esperienza.
La proposta forte dell’autrice è, almeno così mi appare, nel senso di assumere il momento denso dell’esperienza come antecedente fondativo di ogni a-venire riflessione di ordine epistemologico, clinico ed etico.
In questa prospettiva, il pensiero dell’Autrice è direi felicemente consapevole del proprio ancoraggio alla tradizione fenomenologica, come la stessa ci dice esplicitamente, direi programmaticamente, nel suo riferirsi alla «revisione radicale del concetto di esperienza» proposta da Blankemburg[2] come momento necessario «per tentare di andar oltre il cul de sac dell’interpretazione analitica, che rischia di sclerotizzarsi in una scolastica se disancorata dal suo più autentico e vitalizzante fondamento esperienziale.»[3] (Marozza M. I., 2012).
Sappiamo bene che il riferimento al discorso fenomenologico possa a volte comportare come una sensazione di smarrimento, se non di vera e propria estraneità. Ben ci avverte Eugenio Borgna[4] che quando a proposito della dimensione psichica «si abbia solo a sfiorare il tema della fenomenologia, rinascono immediatamente i fantasmi su un indirizzo metodologico considerato astratto e labirintico, letterario e rapsodico» quasi che esso si comportasse alla stregua di una filosofia applicata. Ora, nulla potrebbe essere più equivoco del confondere un discorso di applicazione con un discorso che è, semmai, d’implicazione filosofica.
L’implicare, in tal senso, ci avvicina all’illuminante formulazione di Wittgenstein[5], cara alla nostra Autrice, secondo cui «Chi in una figura (1) cerca un’altra figura (2), e finalmente la trova, vede (1) in un modo nuovo. Non solo può darne un nuovo tipo di descrizione; ma quell’osservare era una nuova esperienza vissuta del vedere.»
Riteniamo che questo illuminante saggio ci permetta di accostarci all’originaria emozione che, a nostro, avviso, anima alla radice l’atteggiamento fenomenologico e di cui, val la pena accennare, proprio nel contesto di una riflessione che si rifà a Jung.
Esso viene a rimandare, così ci sembra, a un modo diremmo basico di intrattenersi con la realtà, in cui si dà agio alla stessa di concedersi per quello che è, qui affacciandosi la figura heideggeriana dell’Aufenthalt, del soffermarci presso, come ci arriva dalla penetrante lettura che ce ne offre Ludwig Binswanger[6], nell’illuminante Introduzione agli scritti sulla Schizofrenia: «L’immediatezza di questo nostro soffermarci presso le cose o gli oggetti si manifesta nel fatto che lasciamo essere gli enti […] come sono di per se stessi.», in cui viene a darsi, da parte nostra, una forma di passività, in cui, invero, stando al discorso binswangeriano si esprime «la più positiva delle attività».
Affermazione, questa, di comprensione alquanto ardua a ben vedere: che significa che lo stare presso le cose è una forma di passività in cui si esprime la più positiva delle attività? Questa formulazione mi ha sempre affascinato e lasciato, al tempo stesso, interdetto, sin dai primi studi di psichiatria. Devo dire che lo studio di Jung mi permesso di riprenderla in una nuova luce.
È a partire da questo stare presso le cose che prende le mosse quella ingenua e stupefacente sorpresa dell’incontro con l’altro, e primum movens di ogni movimento conoscitivo, che ci viene dal celeberrimo motto wittgensteiniano[7] “Non pensare, guarda”; atto, per cui, in definitiva, la nostra esperienza delle cose si dà nella forma di un infinitum imperfectum che ci pone ogni volta, di fronte al singolo caso, nella posizione husserliana dell’eterno debuttante.
E, tuttavia, questo restare dentro il fenomeno, senza dovere saltare immediatamente dietro il fenomeno senza, in definitiva, doverlo precocemente trasfigurare in un altro da sé, non avviene senza fatica e angoscia.
Ora, non può non rilevarsi come il percorso scelto dall’Autrice per evidenziare il momento denso dell’esperienza che ci viene offerto dalla riflessione junghiana sia particolarmente audace, muovendosi dal rigoroso atteggiamento critico che vi rivolge la riflessione fenomenologica di Jaspers.
E in effetti il Che cosa non perdona Jaspers a Jung[8], nome che icasticamente viene dato alla riflessione, svolta in un capitolo del testo, che sviluppa questo non facile percorso, sintetizza mirabilmente un affondo critico che sembrerebbe chiudere ogni discorso al riguardo.
Quello che, in effetti, esso viene a individuare è l’ambiguità pericolosa dell’approccio comparativo junghiano tendente a reificare, ci dice Jaspers, l’invarianza astorica dei simboli, impedendone quella piena comprensione che può darsi solo laddove la loro realtà sia «unicamente radicata nell’esistenza individuale»[9].
Affondo, questo, che fa da sponda all’attacco più decisivo che Jaspers alla fine rivolge a Jung, concentrandosi sulla tematica più dura del suo sistema, ovverosia sul concetto di inconscio collettivo, «titolare di una promessa di oggettività salvifica», di incerta e indefinita natura.
Ritorneremmo così nel regno se pur sontuoso del signum e a discapito dell’emergenza simbolum. E, a partire da ciò, la salvezza si «darebbe nel partecipare per adeguamento alla sostanza di una verità» [10]preesistente e non nel riconoscersi come viator di un percorso infinito di ricerca di senso.
Ambiguità che, secondo Jaspers, altro non sarebbe che il riflesso della radicale incompatibilità, rispetto a cui Jung manterrebbe una posizione bicefala, tra la prospettiva fenomenologica in cui il simbolo diviene apertura prospettica verso la totalità e la concezione psicoanalitica tendente alla demistificazione di un sintoma che non è mai innocente, in forza della cogente formula riduttiva: questa cosa è in realtà quest’altra cosa.
Ora, laddove il discorso jaspersiano sembrerebbe essere risolutamente ostativo rispetto a ogni possibile ulteriore snodo, il merito della riflessione svolta dall’Autrice è quello di portarci ben oltre questo apparente punto morto, attraverso una rigorosa enucleazione di alcuni momenti forti del pensiero junghiano.
In particolare, io ritengo che l’architrave del discorso junghiano che ci arriva dal testo in questione stia nel riconoscimento del principio fondamentale della trascendenza psichica ovverosia della psiche come attività che, fondandosi su un dato d’irriducibile complessità, trascende ogni contenuto, forma e definizione propri.
Questo concetto trova il punto di massima torsione epistemologica nell’ammissione al fondo di una radicale, seppure incomprensibile, uguaglianza tra psiche e materia, in ragione della quale il pensiero junghiano rifugge dalla separazione di antico timbro cartesiano e peraltro così decisiva in Freud tra psiche e corpo, tra cultura e natura, tra conscio e inconscio.
La riflessione dell’Autrice rende così ben ragione dell’importanza decisiva della teoria del complesso a tonalità affettiva come centro organizzatore della vita psichica e della pluralità dei livelli del suo funzionamento: il complesso quale elementare unità psicosomatica pensabile, grazie a cui la nostra esperienza si dispiega con canali percettivi, rappresentativi, affettivi e sensoriali multipli e differenziati, proprio a seconda dell’attivazione dei vari nuclei complessuali e della capacità dialogica che con essi riesce a intrattenere il complesso dell’io.
E non solo: la centralità del complesso comporta che il discorso si radicalizzi sull’importanza dell’affetto come nerbo, ramo centrale del nucleo complessuale. Già a partire dalle ricerche psichiatriche al Burgölzli sulle associazioni verbali si impone, infatti, il rilievo decisivo della rottura della continuità coscienziale attraverso l’irruzione di un canale aperto dalla comunicazione affettiva. L’affetto è, in tal senso, la principale via di accesso al radicalmente altro, all’oggettività dura dell’inconscio: Leggiamo in Aion[11] che «è tramite l’affetto che il soggetto è coinvolto, attratto, giungendo così a sentire l’intero peso della realtà.»
Ora, per l’Autrice, è a ridosso di ciò che si può proficuamente riaprire il confronto tra psicoanalisi e fenomenologia, ovverosia ove si costituisce il momento denso, l’evidenza naturale di Blankenburg, il fondo patico e strutturante della nostra esperienza e che il ricchissimo thesaurus della riflessione fenomenologica ci consegna con il prezioso veicolo conoscitivo della prima impressione.
Ed è forse su questo punto che possiamo rinvenire la pregnanza junghiana dello stare presso, dell’Aufenthalt di cui ci parla Binswanger, in cui verrebbe a darsi, da parte nostra, una forma di passività in cui si esprime la più positiva delle attività.
Si direbbe, in tal senso, che l’io radicalizza la sua attività se è capace di porsi in una feconda recezione passiva, nel senso di farsi carico di un’esperienza irruttiva e intransitiva, di spaesamento e di sospensione, d’interrogazione e di provocazione radicale in forza del quale il dispositivo dell’attività/passività è gettato nella configurazione estrema dell’Un-heimilich: l’altro assoluto che spodesta l’io e vi detta le sue regole, l’Un- radicale, accogliendo il quale l’io si immette in un’esperienza di apertura a un nulla, grazie a cui, tuttavia, si garantisce l’autentico passaggio dall’inumano all’umano.
Potremmo così affermare che questo passaggio avviene con l’avvento della capacità simbolica, ovverosia con l’emergenza visionaria dell’immagine, con le sue specifiche caratteristiche di estrema concretezza affettivo-sensoriale, che si pone non solo come la prima attività cognitiva dell’uomo, espressione di un pensiero percepito e non ancora pensato, ma anche come quella dimensione di fondo più prossima alla provocazione dell’inconscio e che orienta e motiva il pensiero critico, e grazie alla quale, anzi, il pensiero può vitalizzarsi come espressione autentica del sé.
Vorrei così affidare il senso della mia riflessione alla suggestione di un’immagine cinematografica.
Lo storico del cinema Mark Cousins[12] ci racconta che David Griffith ha fatto qualcosa di prezioso per l’arte cinematografica, dicendo che bisognava mostrare il vento tra gli alberi.
Prima di Griffith la scena era solita dispiegarsi come in un ambiente chiuso, senz’aria, ove gli avvenimenti prendevano forma solo a partire dal pensiero del regista, un pensiero disincarnato, si potrebbe dire, a cui mai era dato di interagire con la perturbante imprevedibilità della natura.
Come rileva il critico Roland Barthes, ci dice Cousins, col cinema di Griffth «certe scene vengono, invece, ad avere dei dettagli naturali, imprevisti, che ci emozionano: Barthes chiamò ciò Punctum»[13], qualcosa che si impone d’improvviso e che colpisce i nostri sensi.
Le opere di Griffith sono piene di Punctum. In agonia sui ghiacci, Griffith non avrebbe mai potuto prevedere che il braccio della protagonista avrebbe toccato il ghiaccio del blocco adiacente, mai noi spettatori lo notiamo e siamo colpiti dall’autenticità di questo momento.
Non vorrei azzardare troppo nel cogliere nel Punctum di cui parla Barthes il momento denso dell’esperienza che ci arriva da Jung: la rottura improvvisa della continuità coscienziale grazie a un evento affettivamente forte che colpisce i nostri sensi e che ci fa sentire autentica la nostra vita. Il momento di transizione che segna il passaggio da un’emozione a un’immagine e da questa a un pensiero.
In tal senso, forse, la partita decisiva non si gioca tra un’interpretazione vera e un’interpretazione falsa, ma tra un’interpretazione che rispetti il delicato compimento di queste transizioni creative e un’interpretazione occlusiva di tutto ciò.
Possiamo in qualche modo affermare che il terapeuta debba farsi garante del Punctum, laddove invece la sofferenza sta in una vita racchiusa in un ambiente senz’aria, dove non c’è spazio per il vento tra gli alberi?
Si può allora immaginare come la funzione terapeutica richieda, innanzitutto, la capacità di sostare sulla soglia, negli interstizi, nelle fessurazioni? Dovremmo provare, dunque, ad affiancare al Wittgenstein di non pensare, guarda, lo Joubert di Chiudete gli occhi e vedrete?
La fatica, l’angoscia che ci prendono quando, come dice Fédida[14], siamo al cospetto dell’ «inquietante estraneità, lì dove qualcosa s’infrange, si interrompe, e dove però ci si può mettere veramente ad ascoltare», sono allora forse il timbro più autentico del nostro stare presso, del nostro Aufenthalt terapeutico.
Un analista sufficientemente attrezzato sa bene come in questi momenti possa far capolino difensivamente l’ombra del potere assoluto, nella forma del terapeuta che sa. Ed è a ridosso di ciò che si costella il tema, cruciale e ineludibile nell’esperienza analitica, del nostro personale Getsemani, ovverosia della nostra solitudine di fronte al dolore.
Incrociamo qui forse il punto più radicale della nostra cifra etica: Adolf Guggenbühl-Craig[15] ci dice magistralmente, al riguardo, delle conseguenze catastrofiche che ne possono derivare, quando il terapeuta che sa finisce col diventare «un medico senza ferite che non può costellare il fattore di guarigione nei pazienti; diventa solo il medico ed i suoi pazienti solo pazienti.»
Maria Ilena Marozza conclude il suo bellissimo libro con l’immagine dell’analista che è innanzitutto un esperto «dell’estraneità inquietante, un esperto di niente»[16]: «l’inconscio come silenzio, vuoto tra le nostre parole e i nostri pensieri e che tuttavia è reale perché agisce, perché in grado di esercitare una pressione che ci spinge a pensare», e che ci fa sentire non solo di essere vivi, ma pieni di vita, che nutre il sentimento di appartenenza alla nostra vita e che ci apre alla vita che ci sta intorno.
Felice e paradossale ossimoro, l’immagine dell’esperto di niente: mi rimanda a una cosa imparata ai tempi del Liceo, a Leonardo[17]:
“Infralle cose grandi che fra noi si trovano, l’essere del nulla è grandissima”.
Note
- [1] Marozza M. I., Jung dopo Jung. Saggi critici, Moretti&Vitali, Bergamo, 2012.
- [2] Blankemburg W. (1971), La perdita dell’evidenza naturale. tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1998, p. 15.
- [3] Marozza M. I., Ibidem, p. 126.
- [4] Borgna E. (2003), Le intermittenze del cuore, Feltrinelli, Milano, 2008, pp. 118-119.
- [5] Wittgenstein L., (1953), Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967, p. 262.
- [6] Binswanger L. (1957), Introduzione a Schizophrenie, in Essere nel Mondo, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1973, pp. 254-255.
- [7] Wittgenstein L. (1953), Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, tr. it. Einaudi, Torino, 1999, p. 46.
- [8] Marozza M. I., Ibidem, p. 127.
- [9] Marozza M. I., Ibidem, p. 128.
- [10] Marozza M. I., Ibidem, p. 131.
- [11] Jung C. .G. (1951), Aion: ricerche sul simbolismo del Sé, tr. it. in Opere vol. IX**, Boringhieri, Torino, 1982, p. 32.
- [12] Cousins M., The story of film, An Odissey, Gran Bretagna 2011, I DVD.
- [13] Barthes R. (1980), La camera Chiara, tr. it. Einaudi, Torino, 2003.
- [14] Fédida P. (2007), Umano/Disumano, tr. it. Borla, Roma, 2009, p. 82.
- [15] Guggenbühl-Craig A. (1983), Al di sopra del malato e della malattia, tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1987, p. 78.
- [16] Marozza M. I., Ibidem, p. 272.
- [17] Leonardo, Codice Atlantico, folio 389 verso d, cit. in Givone S., Storia del nulla, Laterza, Bari, 1995, p. VII.
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