
2020 Nuova Serie Numero 1 La Consultazione Analitica
A CURA DI CATERINA ROMAGNOLI L’obiettivo di questo spazio è quello di condividere le esperienze cliniche e le attività del Centro di Consultazione Analitica del CIPA. Guidato dallo specifico sguardo della psicologia analitica di Jung, il Centro di Consultazione nasce e opera come Servizio a contesti e luoghi "altri" dalla stanza di analisi. Nello specifico declina il suo operato attraverso l’orientamento alla domanda terapeutica dei pazienti e la consulenza e realizzazione di progetti e iniziative sul territorio.
Il primo colloquio e le sue molteplici memorie
Quando una persona si presenta al primo colloquio del Centro di consultazione analitica si pone nella condizione di narrare la propria storia a qualcuno che sa che la ascolterà, per poi valutare il collega più adatto ad accoglierla. Ciò pone l’individuo di fronte a un arduo compito: scegliere, tra l’immensa memoria che porta dentro, cosa portare all’altro affinché il suo racconto possa essere abbastanza rappresentativo di ciò che lui è (o crede di essere) e di ciò di cui lui ha bisogno (o crede di aver bisogno).
Non possiamo quindi non tener conto del fatto che i ricordi che vengono raccontati sono opera di un processo adattivo al contesto, all’interno del quale questi sono portati. La narrazione in genere, ma ancor di più la narrazione della memoria autobiografica, è necessariamente costruita e interpretata sul doppio binario di ciò che è reale e ciò che viene trasmesso dal soggetto.
Scrive C. G. Jung: «Posso fare solo dichiarazioni immediate, soltanto ‘raccontare storie’; e il problema non è quello di stabilire se esse siano o no vere, poiché l’unica domanda da porre è se ciò che racconto è la mia favola, la mia verità» (Jung 1961, p. 19). In ogni narrazione ognuno di noi racconta dunque la propria verità e per arrivare a quella narrazione si sono attraversate innumerevoli esperienze che hanno generato infiniti apprendimenti che sono poi diventati incancellabili memorie.
Così, dice Freud:
« […] nella vita psichica nulla può perire una volta formatosi, che tutto in qualche modo si conserva e che, in circostanze opportune, attraverso ad esempio una regressione che spinga abbastanza lontano, ogni cosa può essere riportata alla luce […]. Possiamo soltanto ribadire che nella vita psichica la conservazione del passato è regola più che sorprendente eccezione» (Freud 1929, pp. 562-564).
Perché, anche se noi non possiamo certo accedere ai nostri ricordi come in un grande magazzino dove all’occorrenza andiamo a prendere ciò che ci serve, è pur vero che sappiamo che quelle innumerevoli tracce sono lì e che, in un modo o in un altro, costituiscono il nostro essere ciò che siamo.
Non possiamo tuttavia pensare che quelle tracce siano qualcosa di statico e sempre uguale, sono bensì mutevoli e in continuo divenire. Ogni giorno, attraverso le esperienze che facciamo, si modificano: il contatto con l’ambiente che ci circonda, in particolar modo quello relazionale, genera cambiamenti nel nostro sistema nervoso che ci fanno comportare in maniera diversa attraverso nuovi apprendimenti che andranno a modificare le tracce immagazzinate. In fondo questo è il non detto di ogni terapia: la possibilità di trasformare un tempo perduto in un tempo ritrovato e che quel tempo possa ancora essere ciò che è stato, ma anche molto altro.
Possiamo quindi forse parlare di una memoria generativa?
Scrive F. Nietzsche:
«Solo per la forza di usare il passato per la vita e di trasformare la storia passata in storia presente, l’uomo diventa uomo: ma in un eccesso di storia l’uomo viene nuovamente meno, e senza quell’involucro del non storico non avrebbe mai incominciato e non oserebbe mai incominciare» (Nietzsche1874, p. 11).
Pensando all’incontro della prima consultazione potremmo aggiungere alle parole di Nietzsche: trasformare la storia passata in storia presente per traghettare verso una storia futura. Non possiamo non considerare, infatti, che quando il consulente ascolta la storia passata del consultante, vivendo con lui una storia presente, allo stesso tempo si trova nella condizione di dover pensare alla possibile storia futura del paziente con un collega che accolga quella narrazione e possa usare la memoria generativa disponibile per creare un nuovo tempo ritrovato. Detto in altri termini, ciò che il terapeuta fa durante l’incontro con il consultante è accogliere la storia dell’individuo e allo stesso tempo porsi anche all’interno dell’avvolgente atmosfera del non storico per scorgere la possibilità generativa dell’individuo e pensare quale possa essere il terreno più adatto per seminare una nuova narrazione.
È, secondo me, importante che questo sentire non rimanga solo all’interno del pensiero del terapeuta, ma che possa essere donato alla persona che ci ha richiesto una consulenza. Non dobbiamo infatti dimenticare che chi si rivolge al centro di consultazione ci sta, più o meno consciamente, incaricando di questo ruolo di ricercatori, ci sta in qualche modo dicendo che ha fiducia in noi e nell’istituzione che rappresentiamo, che conta sulla possibilità che esista quella spinta generatrice e trasformatrice, ma che non sa dove riporla e il pensiero che ci sia invece qualcuno che lo sappia, lo solleva e lo fa sentire nel luogo adatto a lui.
Per poter cogliere questa parte così intima della persona che si trova di fronte non si può però certo attingere solo alla memoria che viene narrata che, come detto in precedenza, è spesso intrisa di costruzioni e ricostruzioni del passato atti a soddisfare non solo motivazioni individuali, ma anche bisogni dati dal contesto, bensì bisognerà tentare di rendersi sensibile all’ascolto della narrazione non esplicitata dal paziente che però è trasmessa per mezzo di canali extra- e intra-verbali che necessitano di essere riconosciuti e accolti. Ancora Nietzsche:
«Ciò che nel linguaggio meglio si comprende non è la parola, bensì il tono, l’intensità, la modulazione, il ritmo con cui una serie di parole vengono pronunciate. Insomma la musica che sta dietro le parole, la passione dietro questa musica, la personalità dietro questa passione: quindi tutto quanto non può essere scritto» (Nietzsche 1882)
Così come non tutto può essere scritto, non tutto può essere detto: stiamo naturalmente parlando della memoria implicita dell’individuo, quel bagaglio di esperienze talmente cariche di emozioni e talmente radicate nel tono affettivo delle prime relazioni che non saranno riportate verbalmente, ma piuttosto espresse attraverso il corpo e attraverso l’uso di particolari forme verbali. Ciò permetterà non solo una conoscenza più accurata della persona, ma anche di instaurare una comunicazione empatica, che potrà essere il preludio per un efficace invio, poiché ciò che la persona vive con il consulente, in quel breve incontro, rappresenta una sorta di sguardo verso l’orizzonte, verso ciò che potrebbe essere.
Quando pensiamo, infatti, alla consultazione all’interno di un ʽCentroʼ apposito, non possiamo dimenticare che ci stiamo muovendo all’interno di un’istituzione; nel momento in cui incontriamo l’altro mostriamo un modus operandi che non riguarda solo noi, ma che rappresenta una comunità. Il paziente sa che i terapeuti ai quali si è rivolto fanno esperienze comuni e condividono un certo tipo di cultura: possiedono insomma una memoria collettiva. Mi chiedo quindi se possa essere plausibile che questo suo sapere lo possa indurre a pensare: «Se mi sono trovato bene con lui, forse mi troverò bene anche con chi mi indicherà, non solo perché ha saputo comprendermi e quindi sa chi può meglio accogliermi, ma anche perché fa parte insieme alla persona che andrò ad incontrare dello stesso mondo culturale».
In questi termini si potrebbe quindi pensare che la scelta di rivolgersi ad un Centro di consultazione sia una richiesta più a una comunità di terapeuti che a un singolo.
«Nel Paese della Memoria il tempo è sempre Ora. Nel Regno dell’Allora gli orologi ticchettano […] ma le loro lancette non si muovono mai. C’è una porta introvata (o perduta) e la memoria è la chiave che la apre» (King 2004, p.425)
Così Stephen King. Leggendo queste parole mi viene da pensare che all’interno del colloquio di prima consultazione viene offerta l’opportunità di intravedere la porta non trovata (o perduta) e viene trasmessa la possibilità di aprirla, indicando alla persona che si rivolge al Centro di Consultazione il terapeuta con il quale potrà cercare la chiave più adatta per aprire quella porta e attraversarla insieme.
Bibliografia
- Freud S. 1929, Il disagio della civiltà. Ed. it. in Opere, vol. 10, Bollati Boringhieri, Torino 1967.
- Jung C.G. 1961, Ricordi, sogni, riflessioni, ed it. Rizzoli, Milano 1992.
- King S. 2004, La canzone di Susannah, ed. it. Sperling & Kupfer, Milano 2017.
- Nietzsche F. 1874, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, ed. it. Adelphi, Milano 1974.
- Nietzsche F. 1882, Frammenti postumi Estate-Autunno 1882, ed. it. Adelphi, Milano 1974.
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