Stai leggendo
Il linguaggio poetico e la questione del ritmo

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

QCJ 2012

2012 Numero 1

Il linguaggio poetico e la questione del ritmo

Il Linguaggio poetico

Il linguaggio come aspetto centrale della comunicazione umana è oggetto di continua analisi, non solo nell’ambito più specialistico della linguistica, ma anche di tutte quelle discipline che trattano dell’intersoggettività nella relazione umana, nonché delle produzioni culturali di piccoli gruppi o di grandi collettività.

In genere, il linguaggio, che viene analizzato, è quello discorsivo, in particolare nella sua specie di linguaggio argomentativo. Ernesto Grassi, però, nel suo libro Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, s’interroga sul valore di un altro tipo di linguaggio più prossimo all’espressione patica della condizione umana, il linguaggio assertivo. Nel dialogo si evidenzia pienamente il contrasto tra questi due tipi di linguaggio, in quanto l’immediatezza dello scambio verbale, che potrebbe far supporre la sola esistenza del linguaggio argomentativo, lascia, in realtà, trasparire la forza del linguaggio assertivo per via di un continuo processo di mediazione tra ciò che viene detto e la complessità di ciò che viene sentito e vissuto all’interno di un pensiero intimo.

Del resto, come afferma Vladimir Jankélévitch, quello che viviamo all’interno del nostro pensiero non può essere pienamente detto. Non si tratta di salvaguardare un significato misterioso delle parole, ma di ascoltare l’apertura dell’ineffabile, nel suo dispiegamento sonoro e ritmico, preservando l’aspetto delle diverse configurazioni del dire.

Ascoltare diventa allora auscultare e quindi, come dice Marozza, dobbiamo cogliere la complessità di questa esperienza che trasforma il nostro ascolto nello “sguardo dell’orecchio”, tra comprendere e interpretare. (Marozza, 2009, p. 40) Anche La Forgia coglie la stessa esigenza quando introduce nella sua riflessione il parlare esemplare, mutuandolo dal vedere esemplare di Edmund Husserl, e ci invita a trascendere i limiti dell’abitudine, cercando di cogliere nel dialogo una fisionomia del dire, “un aspetto … che investe per intero la nostra sensorialità, che ci fa emozionare, immaginare, ragionare e, infine, rispondere all’interlocutore sullo stesso registro, o rilanciare secondo una modalità ancora più insinuante e produttiva.” (La Forgia, 2008, pp. 57-58-59)

In che modo possiamo rilanciare secondo una modalità ancora più insinuante e produttiva? Forse è necessario trovare una grammatica del parlare esemplare, oppure dobbiamo trovare un altro registro per mantenere il carattere ineffabile del dire?

Una soluzione a questi interrogativi, può essere individuata nella seguente affermazione di Bion ripresa da Roberto Manciocchi: “non potete dire ad esempio a James Joyce o a Ezra Pound come si scrive in inglese e quali siano le regole per scrivere poesie. Al di sopra di un certo livello diventa qualcosa che ha a che fare con la capacità estetica della persona interessata.” (Manciocchi, 2009, p. 76)

Secondo l’affermazione di Bion si tratta, dunque, di un problema legato alla capacità estetica dell’autore, alla complessità della sua scrittura e più specificamente alla natura del linguaggio poetico. Manciocchi ci esorta inoltre a superare i limiti di un realismo ingenuo riguardo al linguaggio e alla sua espressione.

Un’ulteriore elemento di differenziazione delle forme del linguaggio è dato dal tempo distinguendo il tempo poetico dal tempo della prosa. “In prosa (data la simultaneità del discorso) il tempo è palpabile; non si tratta naturalmente dei reali rapporti temporali tra gli avvenimenti, ma di rapporti convenzionali; … in poesia, invece, il tempo non è affatto percepibile”. (Tynjanov, 1968, p. 152)

Il linguaggio poetico pone, dunque, in rapporto al tempo, il problema della percezione. Questo problema, apparentemente, sembrerebbe di facile soluzione, perché saremmo portati a risolverlo nell’ambito della fisiologia della percezione e delle sue leggi.

In realtà, la questione posta non è risolvibile in modo naturalistico, perché non si può sottrarre alla sua dimensione storica; l’espressione poetica ha una sua peculiare complicazione che è la metrica. Dall’antichità classica fino alla fine del XIX secolo le regole metriche della scrittura poetica favorivano la modalità uditiva della percezione dei componimenti poetici; all’inizio del XX secolo il tipo di percezione che subentra è quello visivo. In altri termini le poesie non vengono più declamate (come non pensare a Walt Whitman che, siamo ancora alla fine dell’Ottocento, invitava a leggere le sue poesie ad alta voce), ma lette da una voce intima, silenziosa, fino a privilegiare una presentazione del testo dove prevale il grafismo. A questo proposito Valery afferma: “A lungo, molto a lungo la voce umana fu base e condizione della letteratura. La presenza della voce spiega la letteratura primitiva da cui quella classica prese forma e l’ammirevole temperamento: tutto il corpo umano presente sotto la voce e supporto, condizione d’equilibrio dell’idea … Venne il giorno in cui si seppe leggere senza sillabare, senza ascoltare, e la letteratura ne fu stravolta. Evoluzione dall’articolato allo sfiorato, – dal ritmato e concatenato all’istantaneo – da ciò che esige un auditorio a ciò che comporta uno sguardo rapido, avido, libero sulla pagina”. (Genette, 1972, pp. 94-95)

Questo modo silenzioso di percepire gli effetti sonori sposta il linguaggio poetico dal suo legame inscindibile con il corpo a una ulteriorità che si fa visione, piuttosto che vedere. I versi si presentano al di là della loro rappresentazione poetica, vivono di una loro autonomia, hanno una loro struttura e condizionano il poetare e il poeta. A questo proposito Hjelmslev sottolinea il passaggio dalla sostanza del significante all’articolazione del significante e del significato, e quindi si ha il passaggio dall’aspetto fonetico a quello semantico del linguaggio poetico, che Pierre Guirad chiama “semiologia dell’espressione poetica”.

L’atteggiamento scientifico insito nell’approccio semiologico, non si sostituisce, però, a quello che Valery chiama il “fatto di stile” poetico, che lo distingue da quello della prosa. Jean Cohen riassume questa differenza tra i due linguaggi come uno scarto da una norma rappresentata dal linguaggio della prosa. In questa asserzione la poesia non va, però, intesa come una deviazione che si affranca da una tematica durevole, ma come una trasgressione della prosa, una sorta di antiprosa.

Altro elemento di differenziazione, tutto interno al linguaggio poetico, tra metrica classica e verso libero, è quello della evoluzione temporale, ossia di un movimento della poesia verso una forma sempre più pura, che corrisponde ad un analogo movimento della pittura verso una progressiva perdita della rappresentazione. Questa evoluzione temporale visibile in quello che viene chiamato verso libero si evidenzia in due aspetti: da un lato la versificazione con la perdita della corrispondenza di suono e senso nella frase, per via di una diversa punteggiatura, dall’altro la non pertinenza degli epiteti con una perdita della letteralità della loro qualificazione (es. erba di smeraldo – erba verde). A questi due aspetti vanno aggiunti: la minore determinazione per la diminuzione dell’uso degli epiteti ridondanti (notare la differenza tra Corneille «E il mio amore adulatore già  mi persuade» con Mallarmé «d’azzurro blu vorace»), la progressiva incongruenza delle coordinazioni (tipica della scrittura surrealista), la posposizione degli epiteti (es. un gran giardino).

Lo scarto, dunque, tra il linguaggio della poesia e quello della prosa, e all’interno del linguaggio poetico, la sua evoluzione verso una forma sempre più pura “implica necessariamente un cambiamento di senso, e più precisamente un passaggio dal senso «denotativo», ossia intellettuale, a quello «connotativo», ossia affettivo”. (Genette, 1972, 103). Lo scarto non rappresenterebbe, dunque, la trasformazione del termine proprio in un arcaismo, ma la sua sparizione. Il cosiddetto giro d’espressione di un termine si allontana dall’uso retorico dello stesso, ma non ostacola quel processo di involuzione della poesia verso una forma pura, favorito dalla creazione di figure d’invenzione. Queste ultime accentuano quel movimento di sparizione del termine proprio come rappresentazione, favorendo la creazione di una poesia come presentazione. La parola incomincia a perdere ogni riferimento esterno per trovare all’interno del verso la sua giustificazione, la sua vita.

Il testo poetico rappresenta un linguaggio imperfetto, è un “messaggio centrato su se stesso” dice Jakobson, e questa incapacità di sviluppare una lingua perfetta, per la non concordanza tra la sonorità e i significati, che Saussure chiama l’arbitrarietà del segno, è alla base della creazione del verso.

A questo proposito Genette afferma: “La funzione poetica consiste proprio in questo sforzo per «compensare», sia pure illusoriamente, l’arbitrarietà del segno, ossia per motivare il linguaggio. Valery che aveva lungamente meditato sull’esempio e sull’insegnamento di Mallarmé, tornò più volte su questa idea, opponendo alla funzione prosastica, essenzialmente transitiva, in cui si vede «la forma»  abolirsi nel suo senso …, la funzione poetica in cui la forma si unisce al senso e tende a perpetuarsi indefinitamente con esso: sappiamo che paragonava la transitività della prosa a quella del camminare, e l’intransitività della poesia a quella della danza. (Genette, 1972, p. 113)

Quello che emerge è l’insegnamento di Mallarmé  e del ruolo del verso poetico come luogo armonico tra la parola e la cosa, le cui molteplici combinazioni creano quella funzione illusoria di identità primigenia, dove non è più visibile alcuna separazione. Il linguaggio poetico è allora quello che, avendo perso il suo valore d’uso, è riconosciuto come una usine della immaginazione del linguaggio, “un’incessante immaginazione del linguaggio, … caratterizzata da una sorta di nostalgia per quell’ipotetico stato «primitivo» della lingua in cui la parola sarebbe stata quello che diceva.” (Genette, 1972, p. 114)

A questo punto il linguaggio poetico, come propone Genette, rinvia alla sua inversione, la poetica del linguaggio. La molteplicità delle forme dell’immaginazione del linguaggio, non sono forme descritte dalla parola, ma forme immaginarie di parole. La parola poetica, nelle sue molteplici forme versificate ritorna a riacquistare la sua voce perduta. “Gli uomini infatti non sognano soltanto con le parole, sognano anche e persino i più rozzi sulle parole e su tutte le manifestazioni del linguaggio.” (Genette, 1972, p. 114)

La vera armonia, per Valery, non è quella imitativa, quella che cerca le definizioni, come elementi stabili di senso in una composizione, ma quella che si costituisce per mezzo di  una serie di artifici che consentono quella unione di significante e di significato attraverso il superamento di un collegamento che riporta alla significazione. Il linguaggio poetico non può essere troppo intellettuale per cui le parole si devono adattare agli aspetti sonori e visuali del suo lessico. Il significato del termine adoperato viene riutilizzato sfruttando i valori semici che più sono contigui al significante. Di contro se l’idioma della propria lingua non è sufficiente nel suo lavoro di creatore di linguaggio poetico, ci si rivolge ad altri idiomi o ne inventa di nuovi come nell’opera poetica di Michaux. Altra soluzione per avvicinare il significante al significato può essere quella dello spostamento di un termine proprio dal suo uso dandogliene uno nuovo. Attraverso questo procedimento si ha un passaggio del termine proprio dal suo significato letterale a quello figurato. Questo procedimento consente di sceglierne il senso, rispetto a quello arbitrario della sua letteralità e permette di motivare il significante, nella  nuova collocazione, grazie al suo uso figurato.

Gli artifici “poetici” non corrispondono, però, alla vera motivazione poetica che rimane quella di una lettura che crea quella che Eluard chiama l’evidenza poetica. La poesia assumerebbe allora una condizione di stato poetico, inteso come esistenza di un linguaggio non assimilabile a quello quotidiano, in quanto capace di esprimere il silenzio nelle parti bianche di un testo.

La poesia non è estranea al linguaggio quotidiano, ma la sua attenzione si rivolge ad un processo di costruzione del verso dall’interno della poesia stessa. Questo giustificherebbe l’asserzione di Jean Cohen della poesia come un processo di degrammaticalizzazione del linguaggio, anche se le affermazioni precedenti non sembrano essere in contrasto con quanto afferma Jakobson che esista una poesia della grammatica.

Questa contraddizione tra una poesia della grammatica e una degrammaticalizzazione del linguaggio poetico è stata ben compresa da Baudelaire che riesce a trasformare nella sua poesia «l’arida grammatica» in una «magia evocatoria». Baudelaire esprime con queste parole questo passaggio: “le parole risuscitano rivestite di carne e di ossa, il sostantivo nella sua maestà sostanziale, l’aggettivo, manto trasparente che lo veste e lo colora come uno smalto, e il verbo, angelo del movimento, che dà l’impulso alla frase”. (Genette, 1972, p. 119)

Il ritmo

Il ruolo dell’artista nella costruzione del verso a partire dal materiale poetico è essenziale, pur se esiste un obbligo della forma, perché è il solo che sia capace di salvaguardare quell’aspetto creativo nella combinazione delle parole che vada al di là della ricerca di significato. Il mondo poetico è il mondo dei contrasti, delle antinomie, e non dell’ordine della significazione. In questo contesto le parole giocano un ruolo importante nella costruzione del ritmo del verso. Goethe afferma che nelle intenzioni di Shakespeare il poetare non sfida i secoli ma ci inchioda ad una significazione legata al presente: «Shakespeare molto probabilmente non ha pensato che le sue tragedie e le sue commedie sarebbero state un giorno stampate e che si sarebbe potuto contarle, controllarle e paragonarle; egli aveva davanti agli occhi, quando le scriveva, la scena, vedeva le sue tragedie e le sue commedie come qualcosa di vivo, di operante, che scorreva giù dal palcoscenico davanti agli occhi e alle orecchie, senza che lo si potesse trattenere ed esaminare  nei suoi particolari, tragedie e commedie che dovevano avere per quel momento efficacia e significato. » (Tynjanov, 1968, p. 12)

La costruzione del verso è operata tramite un principio di costruzione che individua negli elementi che lo compongono dei segni di integrazione e di correlazione. Gli elementi tra loro si correlano, non si aggiungono né si sottraggono. L’unità del verso non è data da una somma di fattori, ma dalla loro reciproca interazione e ciò porta alla conseguenza dell’individuazione di gruppi di fattori differenti. Senza questo aspetto di concordanza tra i fattori, non ci sarebbe più la creazione artistica, ma una qualche forma di automatismo che eliminerebbe ogni motivazione interna al verso che giustifica il senso reciproco della combinazione di un gruppo di fattori.

In questa combinazione di fattori nella costruzione del verso il momento acustico sembra giocare un ruolo fondamentale. A questo proposito Wundt sottolinea la necessità di differenziare il ritmo del verso classico da quello moderno. Mentre il primo influenza il contenuto verbale, il secondo mostra una sua autonomia dal contenuto verbale e una maggiore vicinanza al dato emozionale.

Da un’altra prospettiva, però, il verso moderno non si caratterizzerebbe, come credeva Wundt, per la sua maggiore vicinanza al dato emozionale, relativizzando il ruolo del ritmo, ma è proprio questo ultimo quello che s’impone alla nostra attenzione nell’analisi del verso libero. Ciò è vero se si considera il ritmo non come una regolarità dell’accentazione, ma come il prodotto di una crescente differenziazione e di una riduzione degli elementi musicali; il ritmo del verso poetico non sempre coincide con quello della frase musicale.

Questa tendenza del ritmo ad una presenza più o meno accresciuta nel verso poetico, fornendo alla poesia una connotazione che aumenti la sua differenziazione dalla prosa, è condizionata dal ruolo che è attribuito al contenuto e al senso. In genere l’istanza di fare prevalere il senso spezza il principio ritmico, utilizzando una dizione che non ci permette di riconoscere i diversi gruppi ritmici della composizione poetica e  orientando la parola verso le regole sintattico-grammaticali.

La complessità della costruzione di un verso è data dall’unione tra una logica formale nella costruzione del ritmo ed una continua interferenza esercitata da questo ultimo in relazione alla possibilità di individuare un significato. Il prevalere nella poesia contemporanea dell’utilizzazione del verso libero, non solo ha esaltato la funzione del ritmo, ma ha permesso di meglio differenziare la natura della poesia da quella della prosa, che si distingue dalla prima per una tendenza alla eliminazione del ritmo.

Il verso libero può, dunque, essere considerato un’evoluzione del verso classico, perché al fattore accentuativo si è aggiunto quello della concezione acustica del verso, e quindi del ritmo. Questa concezione acustica del verso ha introdotto nella poesia un’antinomia tra questa concezione acustica e ciò che non è riportabile ad essa, e riguarda quelli che vengono definiti i fattori equivalenti del testo. I fattori equivalenti del testo possono essere definiti come tutti quei componenti extraverbali che in qualche maniera sostituiscono il testo poetico. La forza semantica dell’equivalente è proprio nella sua assenza di testo, che si esprime graficamente in varie forme. «La pausa è un elemento omogeneo del discorso, in cui occupa solo un posto che è suo, mentre l’equivalente è un elemento eterogeneo, che si differenzia per le sue stesse funzioni dagli elementi in cui viene introdotto. Questo spiega la non coincidenza dei fattori di equivalenza con l’impostazione acustica del verso: l’equivalenza non ha espressione acustica; acusticamente si esprime solo la pausa.» (Tynjanov, 1968, pp. 29-30)

Quindi il ritmo non è formato solo dalla sua componente acustica, tra i cui componenti va distinta la pausa, ma anche dai periodi metrici dove gli equivalenti, i cosiddetti fattori subordinanti, con la loro caratteristica di creare delle deformazioni nel testo, hanno un ruolo fondamentale nella costruzione del verso. Il risultato finale è quello di evitare nella costruzione del testo poetico, almeno in quello più contemporaneo rappresentato dal verso libero, di creare degli automatismi o delle ripetizioni, che lo trasformerebbero in un testo di prosa. È fondamentale che si mantenga sempre quel carattere di antinomicità presente tra il fattore costruttivo e gli altri fattori che creano il testo poetico. Questo ultimo è il prodotto di una forma dinamica che si compone e si potenzia nell’assemblaggio degli equivalenti. Basti pensare ad alcun poesie di Puškin dove al posto di alcune righe assenti ci sono righe di puntini. In questi casi queste righe con puntini non rappresentano una pausa ma degli equivalenti strofici che non hanno la funzione di essere delle componenti acustiche, ma di esprimere la tensione dinamica della forma costruttiva che carica di energia le righe susseguenti: «dinamizzando la forma nel suo divenire.» (Tynjanov, 1968, p. 29)

Ritornando al ritmo in base alla sua componente acustica è necessario prendere in considerazione un importante segno del sistema poetico: il metro. Questo ultimo, come gruppo metrico, rappresenta una unità, ma anche un’anticipazione di un gruppo metrico seguente. La non risoluzione di un gruppo metrico antecedente in uno seguente fa perdere il carattere di anticipazione dinamica del primo gruppo creando le condizioni di una sua incertezza. Ciò crea un verso irregolare, chiamato verso libero, che sostituisce il metro come sistema, tipico del verso classico, con il metro come principio dinamico.

L’utilizzo del metro nel ritmo non porta necessariamente ad una utilizzazione di suoni identici o simili, questo aspetto è invece ad appannaggio della rima. Questi due caratteri di discontinuità e continuità dei suoni nel ritmo sono chiamati: fattori ritmici progressivi e fattori ritmici regressivi. Si può arrivare alla conclusione, rispetto l’asserzione iniziale, che la parola non può essere considerata come l’elemento base del fattore costruttivo nella poesia, per via di quello che abbiamo chiamato il fenomeno degli equivalenti che sono alla base del ritmo. Si può dunque affermare che il ritmo rappresenta il fattore costruttivo della poesia.

Grazie a questa ultima definizione è possibile ora comprendere la differenza tra poesia e prosa. L’unità sintattico-semantica della prosa non ha più bisogno di una grafica che, come nell’unità della serie poetica, crea quelle divisioni ritmiche che danno compattezza alla unità di questa serie. Ciò porta come conseguenza la perdita della dinamizzazione del materiale del discorso che è la caratteristica principale dell’unità della serie poetica. «Nel caso del verso regolare abbiamo una dinamizzazione di parole: ogni parola è simultaneamente oggetto di varie categorie di discorso (è parola discorsiva, è parola metrica). Nel caso invece del vers libre si ha di solito una dinamizzazione di gruppi (per le stesse ragioni), ma il gruppo può anche constare di una parola isolata (cfr. Majakovsky)» (Tynjanov, 1968, p. 47) Quindi la dinamizzazione degli elementi del discorso è alla base della distinzione tra parola poetica e parola prosastica.

Il poeta coglie l’antinomia esistente tra parola poetica e parola discorsiva, e comprende il ruolo del ritmo come fattore costruttivo del verso, ma ha anche chiaro come esso rappresenti una complicazione del discorso e della parola prosastica. L’unità e la compattezza della serie poetica costituiscono le condizioni oggettive del verso, ed il ritmo è quella condizione necessaria che crea quella deformazione dell’elemento semantico che diventa subordinato al ritmo stesso. Quando si realizzano queste condizioni si ha un’associazione simultanea degli elementi del discorso nel verso ed il movimento opposto nella prosa.

A questo punto si pone una questione: gli elementi compositivi del verso devono essere ritmizzati o lo sono già ed il ritmo funziona solo come creatore dell’unità e della compattezza della serie poetica? La questione non è di poco conto, perché sollecita a dare una risposta sul ruolo dell’emozionalità in relazione al ritmo. L’importanza del ritmo nella costruzione del verso poetico è data dal fatto che conferisce alla parola una dinamizzazione che le consente di unirsi ad altre parole. La parola poetica porta con sé una capacità di attrazione nei confronti di altre parole, non per il loro contenuto, ma per una intrinseca natura ritmica che li spinge a saldarsi tra loro. L’emozionalità, in quanto intervento esterno a questo processo di congiungimento, non opera sempre come un fattore di costruzione del verso, ma spesso, paradossalmente lo indebolisce, perché ci allontana dal cogliere la sua intrinseca artisticità, che si manifesta nel suo aspetto di unità e di compattezza.

La parola poetica

Prima di introdurre il discorso sulla parola poetica è necessaria una breve esposizione sulla parola in generale. La parola non esprime un senso preciso fuori da un contesto di significazione. Il suo contenuto dipende dal contesto lessicale di riferimento e dalle funzioni degli elementi del discorso. La parola è sempre contestualizzata dalla sua proposizione, ed è inimmaginabile che esista una parola isolata da un contesto; per lo meno si può affermare che la parola separata dal contesto si trova in una posizione differente rispetto la parola della proposizione. Ne consegue che non esiste un significato assoluto fuori da una proposizione ma solo una diversa collocazione.

Nell’analisi dei diversi contesti d’uso della parola si possono evidenziare delle manifestazioni di unità delle categorie lessicali denominate “indizio fondamentale del significato”. Quando in questo ultimo emerge il tono enfatico prevalgono quelli che vengono chiamati gli “indizi fluttuanti del significato”. Negli indizi fluttuanti di significato si ha la prevalenza della sfumatura generica della parola che, in conseguenza di ciò, perde il suo valore di significato fondamentale. In altri termini è proprio grazie alla prevalenza della sfumatura lessicale che si annulla l’importanza del contesto del discorso nell’attribuire un significato alla parola. La sfumatura lessicale destoricizza e decontestualizza la stratificazione di senso che si è andato formando nel tempo e che viene accettato generalmente come significato fondamentale.

Il linguaggio poetico, alla luce delle considerazioni precedenti, è un linguaggio antinomico, perché in esso è presente sia una tradizione lessicale che la sua antitesi, ma ha, a sua volta, plurimi usi espressivi. «Lo stile evoluto, una delle cui leggi è di non ripetere troppo spesso una medesima espressione, esige naturalmente che per una stessa idea ci siano quanti più modi possibile d’espressione. In misura ancora maggiore si richiedono possibilità di scelta tra diverse parole dello stesso significato con una certa struttura di suono – metro, rima, allitterazione -. Ne consegue che la lingua poetica si avvale di una monovalente pluralità di espressioni, formatesi casualmente; ne fa uso alterno, laddove il linguaggio parlato aderisce a ciascuna di esse in particolari condizioni, e le conserva, laddove lo stesso linguaggio parlato a poco a poco perviene nuovamente all’unità. (…) La possibilità di scelta serve a facilitare appunto l’allitterazione.» (Tynjanov, 1968, p. 78)

La possibilità di scelta delle parole nel linguaggio poetico non è la sola caratteristica della parola poetica, ma va pure ascritta tra le sue possibilità quella della creazione di nuove parole poetiche. A tal proposito Wölflin cita l’esempio di Lucrezio e Virgilio, che nell’introduzione dell’esametro utilizzano il termine di maximitas al posto di magnitudo o l’utilizzazione da parte di Orazio e di Ovidio nei poemi esametrici del termine supervacuus al posto di supervacaneus presente nella prosa arcaica.

La parola poetica dipende tuttavia dalla serie ritmica del verso e vi contribuisce tramite gli indizi fondamentali e secondari del significato e la presenza degli indizi fluttuanti. L’unità della serie ritmica viene valutata nella sua autonomia in merito alla difformità metrica; una maggiore difformità metrica garantisce un’autonomia più rilevante dell’unità della serie del verso.

La metafora, come esempio dell’utilizzazione delle figure retoriche nella poesia, dipende anch’essa dall’unità della serie del verso. La metafora richiede la presenza degli indizi fondamentali di significato della parola, ma richiede anche un suo parziale spostamento verso gli indizi fluttuanti, per potere essere continuamente rinnovata e non saturata nel suo significato attuale. L’unità della serie si realizza non solo nell’isolamento di una parola o di un gruppo di esse, ma anche nel valore emergente della loro divisione. Quindi l’unità di serie non si rafforza solo nell’unità dei gruppi di parole, ma anche nella loro divisione, con una ricombinazione delle parole in nuovi gruppi e la  creazione di nuove ritmicità. In questo modo possono essere messe in evidenza parti accessorie del discorso poetico proprio grazie a queste divisioni, correlate alla rima.

Un altro aspetto del ruolo della parola nell’unità di serie del verso è rappresentata da quello che Wundt chiama “condensazione di concetto mediante associazione sintattica” e Breal e Darmesteter chiamano “contamination”: «in quanto le parole del gruppo si influenzano a vicenda come contaminandosi per la loro vicinanza: per cui una sola parola può anche rappresentare un intero gruppo.» (Tynjanov, 1968, p. 92)

Come si costruisce una unità di serie ritmica in accordo con la scelta o la creazione delle parole poetiche? La questione solleva un problema reale perché risponde all’esigenza di non soffermarsi solo sull’aspetto acustico del ritmo, ma anche di tenere conto dell’interazione di questo ultimo con la sintassi. A questo proposito si parla dell’importanza della corrispondenza e della motivazione del ritmo che si realizzano in quella che viene chiamata l’ “armonia delle parole”.

Nell’armonia è importante che ai suoni corrisponda un’ampiezza del senso, e questo è il prodotto dell’effetto ritmico sulla semantica di una parola o di un gruppo di parole in poesia. L’armonia rappresenta, dunque, l’effetto deformante del ritmo sul significato della parola. Il verso libero, già citato, nel paragrafo del ritmo, è l’esempio tipico della variabilità di senso in funzione del ritmo. La prosa rappresenta il luogo della espressione del senso tramite le parole, mentre la poesia non alcun scopo comunicativo perché non si colloca nell’ambito della significazione. Le parole «assumono nel verso una certa semantica immaginaria.» (Tynjanov, 1968, p. 102)

Il semiologo Rosenstein alla fine del XIX secolo affermava che l’aspetto semantico del verso ha una sua specificità determinata dal dato della emozionalità. Più precisamente i concetti associati alle emozioni creano quei rapporti di tipo sintattico dove si esplicitano i significati delle parole. Wundt, al contrario di Rosenstein, facendo sua l’affermazione di Novalis della mancanza di senso nella costruzione poetica, è convinto che i sentimenti soggettivi non influiscono sul piano estetico. «Dunque al troppo generico rimando di Rosenstein alla natura emozionale delle rappresentazioni verbali in poesia va sostituita la tesi del “rapporto oggettivo tra le parti della rappresentazione”.» (Tynjanov, 1968, p. 104)

Il rapporto oggettivo tra le parti se da un lato relativizza il valore emozionale delle parole poetiche non esclude un loro valore semantico nell’ambito però di una significazione immaginaria. L’importanza della scelta della parola poetica nella costruzione del verso apparentemente sembrano corrispondere ad una esigenza di significazione che in qualche modo forniscono, anche se scompaiono gli indizi fondamentali del significato per lasciare il posto agli indizi fluttuanti. Quello che resta è un’allusione agli indizi fondamentali del significato, in realtà si tratta della creazione di una configurazione ritmica di nessi di parole contigue. Il risultato che si ottiene è quello della salvaguardia di un significato unitario del gruppo di parole poetiche utilizzate, ma senza corrispondere alla somma dei significati fondamentali delle singole parole utilizzate. Tutto ciò equivale a quello che viene chiamato “semantica immaginaria”.

Per concludere segnaliamo brevemente quelli che sono gli indizi fluttuanti più comunemente usati nella costruzione poetica. Innanzitutto gli idiotismi o i termini utilizzati nella lingua parlata, che nel verso poetico non vengono riconosciuti nella loro significazione fondamentale per via del loro uso ritmico. Allo stesso modo si comportano gli aggettivi composti grazie alle sfumature lessicali. Di contro la forza delle figure retoriche dà vigore agli indizi fondamentali di significato della parola.

Tra gli indizi fluttuanti vanno ascritti due fattori ritmici come la rima incentrata sull’unità di serie del verso e la strumentazione basata sulla compattezza della serie e sulla intonazione della poesia data dalla correlazione fonetica dei suoni.

Altro indizi fluttuanti sono dati dai gruppi di suoni presenti in principio di parola, che creano l’effetto dell’inatteso e dagli effetti semantici della rima dove gioca un ruolo importante il fattore della contiguità.

In generale si può affermare che ogni deformazione del significato fondamentale della parola «viene a squilibrare nella parola stessa il rapporto fra parte oggettiva e parte formale (e insieme a complicare l’indizio fondamentale con un indizio fluttuante); come ha detto una volta Majakovskij, rende insomma le parole fantastiche (cioè precisamente favorisce l’emergere in esse degli indizi fluttuanti). (…) Dunque il ruolo costruttivo della rima si esplica non tanto in un offuscamento del momento semantico, quanto piuttosto in una sua decisa deformazione.» (Tynjanov, 1968, pp. 148-149)

La musicalità del linguaggio poetico.

Ciò che in genere viene indicato come musicale nel linguaggio poetico è invece da attribuire a quello che N. Frye identificava con il melodioso, ovvero con la mescolanza melodiosa delle vocali e delle parole. Le due caratteristiche centrali della musicalità della composizione poetica sono l’accento e la continuità. Da questa prospettiva il ritmo si compone di significati verbali, di accenti tonici e di proprietà concernenti l’articolazione dei fonemi.

La ripetizione e l’anticipazione ritmica creano nel lettore uno stato di attesa sulle soluzioni formali del verso. Questo stato che precede la lettura completa consente una serie di soluzioni ritmiche che non possono essere smisurate. «Questa trama di attese, appagamenti, disappunti, sorprese, che il succedersi delle sillabe comporta è il ritmo.» (Pagnini, 1958, p. 13) La poesia nella sua coloritura musicale diventa il luogo dell’inaspettato ma anche di ciò che è atteso, creando quella articolazione ritmica che lo rende così diverso dalla narrazione prosastica, solcata dal significato fondamentale delle parole.

Il verso che per mezzo dell’accentazione ritmica dialoga con il fraseggio musicale, mette in risalto la vita interiore della composizione poetica. L’ Ulisse  di Joyce può essere l’esempio di come è possibile una scrittura attenta a tutti i complessi vocali e consonantici di un testo che attraverso la loro organizzazione, in unione con gli aspetti grammaticali e sintattici, creano quella tessitura che diventa lo sfondo dove le immagini dialogano tra loro all’interno di un fraseggio complesso.

Quindi, come afferma Pagnini: «La struttura musicale – intesa – non soltanto come controllo di suono e di ritmo, ma come suono e ritmo non dissociabili dai livelli semantici – è senz’altro gran parte della “forma” della poesia.» (Pagnini, 1958, p. 14) Il verso libero, dunque, non va inteso come liberazione dalla forma, ma come esaltazione dell’unicità dell’unità interna della poesia. Mentre la forma esterna rientra nello stile, la forma interna di una poesia rappresenta il luogo della sua originalità.

L’aspetto creativo della musica e dei suoi suoni è stato ben compreso da Henri Bergson che nel suo saggio Sui dati immediati della coscienza sottolinea come la musica più che evocare i sentimenti, li suggerisce. Da ciò si evince come la parola poetica abbia nel suo aspetto musicale una capacità creativa piuttosto che ripetitiva. Il significato lessicale della parola poetica, attraverso il fraseggio musicale, perde i connotati della significazione per emergere come puro sentimento. Il senso del ritmo e quello della struttura sono gli aspetti peculiari della musicalità del verso poetico.

Le immagini evocate dalla composizione poetica sono la testimonianza dell’esistenza del ritmo che ci consente di conoscere e riconoscere quella data poesia, prima ancora della sua presentazione come una composizione di parole. La poesia, nella sua forma di composizione musicale, è, innanzitutto, il luogo dei passaggi.  Questi possono per analogia essere paragonati ai passaggi dei diversi movimenti di una sinfonia o di un quartetto.

Questi passaggi, che testimoniano la vitalità di una poesia in un’alternanza di anticipazioni e di ripetizioni, possono però scomparire dalla nostra attenzione, se consideriamo la poesia come un sistema chiuso e definito. Gli sviluppi tematici di un componimento poetico non possono propriamente essere paragonati a quelli contrappuntistici, ma ciò può essere in parte compensato dall’utilizzo di fatti associativi e dalla mnemotecnica che consentono di dilatare il componimento poetico oltre la sua brevità di scrittura.

Questa attenzione alla musicalità del verso poetico ha spinto il poeta T. Eliot a privilegiare nei suoi componimenti i ritmi delle conversazioni ordinarie. Il mutare negli anni dell’accentazione dei propri contemporanei gli forniva quel modello imitativo che impediva alla poesia storicizzandosi di diventare prosa. «Eliot ha seguito palesemente i procedimenti mallarmeiani della costruzione ellittica del discorso, dell’uso delle antinomie, dei paradossi e degli anacoluti, stabilendo così dei rapporti verbali sottilissimi, e lasciando che certe parole, o proposizioni, apparentemente isolate dal contesto, emanino una suggestività che non si può altrimenti definire che “musicale”.» (Pagnini, 1958 p. 33)

Riguardo all’uso delle parole poetiche Eliot  privilegia l’uso di quelle, che pur se fanno parte del linguaggio concreto, possiedono una capacità evocativa data dalla loro intrinseca musicalità e dal ritmo dei versi frammentari. La suggestione dei versi eliotiani è data anche dalla costruzione dei suoi Four Quartets per mezzo di un movimento circolare che non solo esalta la musicalità dei versi, ma anche, proprio per via della sua circolarità, prende delle valenze simboliche. «La circolarità della struttura di ciascuno dei quattro pezzi, in aggiunta, la circolarità della struttura di tutte e quattro i componimenti insieme, diventa una specie di autosimbolizzazione della forma stessa del “pattern”, che realizza il paradosso del moto e dell’immobile.» (Pagnini, 1958, p. 36)

In conclusione Eliot, con queste composizioni, ha dimostrato come la musicalità di un componimento poetico risponde non solo alla capacità del poeta a cercare quella forma dove il ritmo è il frutto di un sapiente equilibrio di combinazione delle parole come in un fraseggio musicale,  ma anche esercitare quella libertà espressiva, che è quella che rende la musicalità del verso evocatrice di immagini e di emozioni.

Fenomenologia e poesia.

Lo scopo della fenomenologia è quello del passaggio da una memoria come oblio a una memoria come reminiscenza. Lo smemoramento ci allontana dall’oblio e ci riconduce a quella esperienza originaria, Grunderfahrung, dove è contenuta la illusorietà e la non illusorietà delle sue origini. La liberazione dal mondano oscura la chiarezza della storia depositata nella memoria per aspirare a quella smemoratezza, che è la sola che ci allontana dall’oblio.

La raccolta La Terra Promessa di Giuseppe Ungaretti ha rappresentato quella esperienza originaria dove si sono incontrati il poeta e il fenomenologo Enzo Paci. Nell’analisi del fenomenologo l’approccio alla poesia diventa fenomenologia della poiesis. In questo libro di Ungaretti il tempo rappresenta l’incontro con l’altro, la cui presenza si protende dalla permanenza in una emergenza: “il riprendere il viaggio” dall’originario. «L’esperienza della poesia sommove il fondo dell’infondato, del mondano e per noi viventi il fondo, l’esperienza del fondo s’inizia dall’infondato.» (Paci, 1972, p. 21)

Il fondo, però, è ambiguo, la memoria si confonde con l’oblio, che a sua volta è indistinta da questo, come la morte e la vita, l’una esistente in rapporto all’altra. Nel  La Terra Promessa la parola poetica nasce da questo fondo, non è una parola declamata, è una parola che origina dal silenzio. La parola non è una parola della memoria, è invece la testimone dell’oblio, del suo annullamento, la parola poetica come reminiscenza. L’istante della sua emersione rappresenta il momento del passaggio, dove l’essere è l’istante del tempo “interrotto”. Il fondo è il passato irrimediabilmente perduto, ma anche la meta irrealizzabile. Noi sentiamo solo attraverso l’altro, e la morte è sempre la morte dell’altro.

La poesia è dunque poiesis, ma come tale non è mai data se non attraverso il sentire degli altri, la loro morte. Siamo nell’ambito dell’Einfühlung, quando si parla dell’immedesimarsi, del sentire l’altro, che però è sempre un sentire l’altro in noi. «Se ciò che passa dal non essere all’essere è nascita, è risorgere per via di sentimento, il sentimento è la comunicazione originaria, ritrovata, che dà un senso alla parola. Il sentire, con termine husserliano, diventa “donatore di senso”.» (Paci, 1972, p. 27).

La parola poetica si accosta alla poiesis quando il poeta opera una sospensione della parola satura di significato. Il poeta opera nella sospensione di ogni pregiudizio; è l’epoché la cifra di ogni agire poetico. Il poeta e la parola poetica vengono dallo stesso originario ed attraverso una epoché del significato comunicano la loro origine che non ha un inizio. Il poeta che va oltre il proprio ego e trascende il suo essere poetico, prova una Einfühlung degli altri e condivide con essi la stessa Einfühlung originaria, ovvero la parola dei morti. «All’estremo limite la poiesis come creazione è condizionata al totale raggiungimento dell’arché nella morte. Il poeta vivrà solo nelle parole, che vivranno ancora dopo la sua morte, negli altri, in coloro che verranno. (…) Ogni poeta non può essere, non deve essere, dunque, che un poema incompiuto, di cui è possibile dare la direzione, il senso, non la conclusione, che sarà del resto, per il vivere nel mondo, per l’esistere nel mondano, la morte.» (Paci, 1972, pp. 29-30)

Nel La terra Promessa, però, Palinuro è l’uomo che crede all’approdo ultimo, e che non immagina che l’idea irrealizzabile, il telos, è nel senso della vita presente. La volontà di afferrare e dominare il mondo lo cosificherà nel presente fino alla sua trasformazione “nell’immortalità ironica di un sasso.” La volontà di possesso di una scienza assunta a verità assoluta, crea quel pregiudizio che impedisce alla verità di essere intenzionalità. Il futuro investito dal pregiudizio della certezza perde la sua direzione. «La rigorosità del vero. La strenge Wissenschaft di Husserl, è un orizzonte ideale: lo si salva come intenzionalità nella misura nella quale si riconosce la propria incompiutezza, l’impossibilità di imprigionare il vero nel mondano. (…) La pietas è la rinuncia alla pretesa di considerarsi compiuti, alla pretesa della scienza, della filosofia, della poesia, di essere la verità, di essere creazione assoluta. La poesia sarà allora approssimazione infinita alla creazione, esperienza fenomenologia della poiesis. Nel linguaggio di Ungaretti ciò significa non dimenticarsi mai della “frattura”.»  (Paci, 1972, p. 32)

La “frattura” è nella consapevolezza dell’aspetto mimetico della poesia che nella ricerca della verità sa di rimanere, grazie alla pietas, sempre un gradino sotto, di produrre quello scarto che ci porta all’imitazione dell’idea e non all’idea stessa. Nel momento in cui si cerca la verità si presenta sempre ai nostri occhi la non-verità. Quindi la smemoratezza come cifra della condizione umana e del suo esistere nella poiesis, ci allontana dal piano mondano e dall’oblio del mondo.

«Didone è il dolore umano per l’impossibilità della poiesis , della creazione totale. È l’incarnazione della “permanenza della frattura”, perché Didone può vivere solo se Enea è presente mentre Enea non può essere che assente: è un personaggio ideale. È un’idea, è un limite, ed è limite anche come sensibilità, perché anche la sensibilità, come tale, come sensibilità pura, si pone in un orizzonte irraggiungibile. (…) è sempre pronto a ripartire ed a riprendere il viaggio per la Terra promessa. È questo il segreto: sentire la presenza della Terra promessa non nella conquista ma nella direzione verso la verità, della verità come telos che diventa significato ideale e, nello stesso tempo, sensibile. Enea è l’intenzionalità vivente, l’assenza come presenza vivente.» (Paci, 1972, pp. 35-36)

Come ben espresso da Enzo Paci, Enea nel La Terra Promessa di Ungaretti, è l’intenzionalità vivente, la lebendige Gegenwart husserliana. Questo concetto esprime il senso di questo lavoro poetico di Ungaretti, dove l’esperienza della vita e della morte è una lenta conquista intenzionale. Ungaretti ci invita ad accettare l’assenza come il momento originario sia della vita che della morte. La parola poetica è il luogo ed il tempo dove la morte ritorna come vita, superando la notte del silenzio, da cui origina la luce e il senso della vita: «È senza fiato, sera, irrespirabile,/ Se voi, miei morti, e i pochi vivi che amo, / Non mi venite in mente / Bene a portarmi quando,/ Per solitudine, capisco, a sera.» (Paci, 1972, p. 38)

Psicologia analitica e poesia.

Carl Gustav Jung nel 1930 pubblica, nel volume di E. Ermatinger Philosophie der Literaturwissenschaft, il testo Psychologie und Dichtung, Psicologia e poesia. Alla morte di Jung furono ritrovate tra le sue carte il manoscritto della Premessa, dove si allude a una conferenza tenuta a Monaco di Baviera nel 1930, a cui farà seguito la pubblicazione del testo. In seguito è stato ripubblicato con lievi modifiche nel 1950.

Nella Premessa Jung sottolinea l’importanza che la psicologia è andata assumendo nel tempo non solo per il mondo accademico ma anche per un più vasto pubblico. La psicologia, come scienza giovane, però, corre il rischio di cadere, nella sua necessaria strutturazione come disciplina, in un pensiero rigido e unilaterale. Lo psicologo deve sempre tenere conto della soggettività delle proprie ipotesi, da cui non possono essere tratte delle verità a carattere universale. Ogni spiegazione ha sempre una sua prospettiva che non elimina il contributo di altri punti di vista e ciò è soprattutto vero nel campo della indagine dei fenomeni psichici.

Data la complessità della psiche, il lavoro psicologico affronta il fenomeno complessivo non solo nelle sue espressioni esterne ma anche nelle diverse forme dello spirito. La psiche lascia traccia della sua esperienza in diversi campi dell’espressione umana, tra questi vi dobbiamo comprendere anche la poesia e il linguaggio poetico. L’intento dello psicologo non è quello di competere con gli specialisti di questa disciplina, ma di dare il proprio contributo attraverso il punto di vista psicologico. La creatività poetica, come tutti gli altri campi di espressione artistica, sfugge a una comprensione unilaterale (da questo punto di vista anche la psicologia si uniforma), fornendo solo una parziale prospettiva derivante dal proprio punto di osservazione.

La coscienza tende a fornire delle spiegazioni dei processi psichici all’interno dei suoi valori e dei suoi strumenti di conoscenza. I processi creativi, però, originandosi a livello inconscio, non si dispiegano in modo unilaterale, ma mantengono intatta una capacità molteplice di espressione. Jung distinguerà il primo tipo di creatività accessibile alla coscienza come psicologico, ed il secondo, irriducibile ad una spiegazione totale da parte della coscienza, come visionario.

Il primo tipo, quello psicologico, esprime dei contenuti, di cui la coscienza si serve, tipici dell’esperienza umana dell’autore e dell’umanità in generale. Si rappresentano esperienze di vita e stati d’animo attraverso un uso del linguaggio dove le parole evocano figurativamente i sentimenti e le passioni umane. Si stabilisce sempre un contatto con la realtà esteriore che è fonte d’ispirazione per il poeta, che, attraverso una elaborazione interiore, la restituisce tramite nuove configurazioni di senso e per mezzo dell’uso di figure retoriche.

Il secondo tipo, quello visionario, è quello su cui Jung si sofferma maggiormente nel suo scritto. Il modello da cui trae le sue riflessioni è il Faust  di Goethe, dove nella stessa opera si presentano e si confrontano i due tipi di creatività poetica. La caratteristica centrale dell’esperienza visionaria è quella dell’origine imprecisata ed antica delle immagini e dei mondi che vanno emergendo nella composizione. È come se l’autore incapace di comprendere il senso di quello che si va configurando, riuscisse, però, a presagire che tutto ciò fa parte di un Urwelt a lui sconosciuto. «L’esperienza visionaria strappa dall’alto al basso il velo sul quale sono dipinte le immagini del cosmo, e consente allo sguardo di intravedere le inafferrabili profondità di ciò che non è ancora nato.» (Jung, 1930, p. 363)

Altri esempi sono dati da Dante e da Wagner che, a partire da dati storici, il primo, e da dati della mitologia, il secondo, li oltrepassano per ritrovarsi in luoghi oscuri per la coscienza, ma che esprimono la natura simbolica della composizione. L’esperienze d’amore sia nella Divina Commedia che nel Tristan und Isolde derivate da dati personali o mitici sono anch’essi portatori di qualcosa che trascende la coscienza, ponendosi nell’ambito dell’incomprensibile. L’uomo, nella sua accezione di uomo cartesiano, rimane perplesso di fronte queste manifestazioni e si rifugia nella spiegazione scientifica e causalistica.

Il poeta, che è una di quelle figure artistiche che accetta di avventurarsi nell’ignoto, piuttosto che utilizzare nelle sue composizioni delle parole che non esprimono il potere evocativo delle immagini che si vanno configurando dentro la sua interiorità, risponde a questa sfida creando nuove parole poetiche e nuovi miti. Il poeta diventa, dunque, un interprete delle visioni, un creatore di riflessi luminosi, mescolando parole e immagini in un ritmo poetico che dà voce alla visione.

Il linguaggio che si produce esprime il lato non visibile e contraddittorio delle visioni, e dunque come tale deve essere un linguaggio paradossale. Intravedere, come ha fatto Freud, solo l’aspetto personale dell’artista all’origine di una composizione poetica, significherebbe eliminare il suo sfondo di Urwelt. «L’essenza dell’opera d’arte, infatti, non consiste nell’essere carica di singolarità personali (quanto più questo avviene tanto meno può parlarsi d’arte), ma nel fatto d’innalzarsi al di sopra di ciò che è personale e di parlare con lo spirito e con il cuore allo spirito e al cuore dell’umanità.» (Jung, 1930, p. 373)

Tutto ciò è possibile, perché anche l’artista esprime un insieme di elementi eterogenei e paradossali, in quanto è sia un essere umano, sia la voce di un processo creativo non derivabile dalla sua personalità. Il poeta è uno strumento del processo creativo e dunque, nel momento che esprime questo processo, non è l’umano personale che viene messo in gioco ma l’umano umanità. L’uomo, dunque, in questo ultimo aspetto, è un uomo collettivo, che esprime nella sua scrittura la direzione di senso e l’intenzionalità inconscia dell’umanità.

La creazione diventa un’esigenza nel dare immagine all’inesprimibile, pur se questo processo si mantiene in uno stato d’incompiutezza. Non è mai del tutto chiaro dove volge l’immagine, per cui la sua espressione non può che essere paradossale.

Questa forte sollecitazione interiore alla creazione spezza la volontà di un percorso di vita lineare e senza ombre, ma crea nell’artista la rappresentazione di un uomo dal destino tragico. La difficoltà di adattamento alla propria natura umana testimonia la natura prometeica dell’uomo artista che rimane incatenato alla sua arte. «L’opera che si sviluppa è il destino del poeta e ne determina la psicologia. Non è Goethe che fa il Faust, è la componente psichica “Faust” che fa Goethe. E che cos’è Faust? Faust è un simbolo non soltanto un richiamo semiotico o un’allegoria di una realtà nota da tempo, bensì l’espressione di una forza vivente che opera profondamente nell’anima tedesca, alla cui nascita Goethe deve contribuire. » (Jung, 1930, p. 376)

In quanto archetipo, Jung afferma che l’espressione poetica che l’artista farà emergere determinerà il carattere etico di questa espressione, di questa immagine. Da qui la grande responsabilità dell’artista, del valore civile e morale che lui esprime, facendolo assurgere alla stessa importanza che aveva nell’antichità classica. Il nostro rapporto con l’opera d’arte, con la poesia, ci pone sullo stesso piano del poeta, sollecitandoci al confronto con questa forza creativa che in lui ha preso la forma dei versi poetici. Questa forza ci trasmette quello smarrimento, provato dal poeta, della perdita del senso della vita, fino ad arrivare a percepire quella Urwelt dove la singolarità lascia il posto alla collettività. «Allora comprendiamo anche quale sia stata la sua esperienza primigenia: egli ha toccato quella profondità psichica salutare e liberatrice nella quale ancora nessuna coscienza singola si è isolata, per seguire la via degli errori e del dolore, dove tutti ancora sono presi dallo stesso ritmo, dove l’agire e il sentire del singolo si ripercuotono ancora sull’umanità intera.» (Jung, 1930, pp. 377-378)


Bibliografia

  • Bergson (1889), Essai sur les données immédiates de la conscience,tr. It. Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002.
  • Genette (1969), Figures II, tr. It. Figure II. La parola letteraria, Einaudi Editore, Torino, 1972.
  • Grassi (1989) Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini e associati, Milano, 1989.
  • Jakobson (1931), O pokolenii, rastrativsěm svoich poetov in Smerť Vladimira Majakovskogo, tr. It. Una generazione che ha dissipato i suoi poeti, Il problema Majakovskij, Einaudi Editore, Torino, 1975.
  • Jankélévitch (1961) La musica e l’ineffabile, Bompiani, Milano, 1998.
  • G. Jung (1930), Psychologie und Dichtung, tr. It Psicologia e poesia, Opere complete, vol. X, tomo I, Boringhieri Editore, Torino, 1985.
  • La Forgia (2009), Le forme del dire, in Corpo-Linguaggio, a cura P.F. Pieri, Moretti&Vitali, Bergamo, 2009.
  • Manciocchi (2009), Il pensabile e l’impensabile fra Wittgenstein e Bion, in Corpo-Linguaggio, a cura P.F. Pieri, Moretti&Vitali, Bergamo, 2009.
  • Marozza (2009), Di che parla la talking cure ? Lo sfondo sensibile del discorrere in analisi, in Corpo-Linguaggio, a cura P.F. Pieri, Moretti&Vitali, Bergamo, 2009.
  • Paci (1972), Ungaretti e l’esperienza della poesia, in G. Ungaretti, Lettere a un fenomenologo, All’Insegna del Pesce d’oro, Vanni Scheiwiller, Milano, 1972
  • Pagnini (1958) La musicalità dei Four Quartets di T.S. Eliot, in M. Pagnini, Critica della funzionalità, Einaudi Editore, Torino, 1970.
  • Tynjanov (1923), Problema stichotvornovo jazyka, tr. It Il problema del linguaggio poetico, Il Saggiatore, Milano, 1968.

Scarica il PDF

View Comments (0)

Leave a Reply

Your email address will not be published.


Quaderni di Cultura Junghiana © 2022 CIPA - Istituto di Roma e dell'Italia centrale Tutti i diritti riservati
È consentito l'uso di parti degli articoli, purché sia correttamente citata la fonte.
Registrazione del Tribunale di Roma n° 167/2018 con decreto dell’11/10/2018
P.iva 06514141008 | Privacy Policy