
2020 Nuova Serie Numero 1 Setting Fuori Luogo
A CURA DI MANUELA TREVISI La rubrica Setting Fuori Luogo si propone di accendere l’interesse sulla tematica di come poter coniugare le due anime del terapeuta: psichiatra e psicoterapeuta di orientamento junghiano. Provocatoriamente, il nome della rubrica, Fuori Luogo, esprime una riflessione Fuori dai luoghi classici dell’analisi. Si propone di aprire una discussione sul contributo che la psicologia analitica in particolare e le diverse psicologie del profondo, possono offrire alle istituzioni, attraverso una visione, che nella pratica clinica quotidiana metta a fuoco una possibilità d’essere terapeuta/curante, non più esclusivamente vincolato alla tecnica, ma espressione di un proprio sentire.
Il fermento riformistico basagliano: memorie di un’esperienza
Dialogo tra Francesco Di Nuovo e Vito Marino De Marinis
DI NUOVO
Nel contesto di una raccolta di riflessioni che tra i suoi temi pone quello della memoria, come vuole darsi il presente fascicolo di QDCJ, viene a prendere corpo questa mia provocazione sulla tua giovanile esperienza basagliana.
Almeno tre motivi, penso, forse verrebbero già a giustificarla.
Innanzitutto, si tratta del valore stesso che s’incarna nella figura e nell’opera di Franco Basaglia, valore, questo, che, a ben vedere, trascende la dimensione psi, in senso stretto, per acquisire una portata d’incisiva valenza sociale e culturale; e, proprio a ridosso di questo punto, vi si può forse annusare l’inconfondibile aroma junghiano che proviene dal complesso intreccio tra dimensione individuale e collettiva.
Penso poi che una riflessione di taglio propriamente analitico, proveniente da un’esperienza aurorale del tuo percorso formativo, qual è appunto il tuo incontro con Basaglia, possa forse costituire un valore aggiunto per cogliere della sua opera alcuni nuclei essenziali.
Infine, vorrei chiederti, e ciò sul filo di una risonanza più personale, come questa esperienza abbia potuto agire nello sviluppo tua vicenda analitica.
DE MARINIS
Provo a risponderti risvegliando ricordi che risalgono a più di quaranta anni fa.
Quando parli di esperienza aurorale cogli perfettamente nel segno, avevo appena ventitré anni quando incontrai la prime letture che parlavano dell’esperienza basagliana.
Anche se prima di iniziare Psicologia avevo già letto alcune opere di Freud, come per esempio L’interpretazione dei sogni, una rigida visione ideologica mi faceva pensare ancora all’analisi come “esperienza di cura per i borghesi” che tendeva a sottrarre gli individui alla lotta di classe, attraverso una mistificazione che provava a ridurre a dimensione individuale quello che invece proveniva dall’ alienazione frutto dei rapporti di potere derivanti dalla società divisa in classi.
In un clima di rivoluzione possibile, il disagio mentale veniva così ricondotto direttamente alla responsabilità della società, che andava quindi prima di tutto cambiata. Parallelamente iniziavano a girare le opere di Laing e Cooper, sulla critica alla famiglia patriarcale: era un periodo fervido e entusiasmate.
A Trieste stava avvenendo qualcosa di rivoluzionario, si destrutturava uno dei simboli del mondo borghese che aveva tentato di recludere la “follia” in un mondo separato.
Si tentava di ridare dignità umana al “folle”, al “pericoloso per sé e per gli altri”: non avevo ancora letto “La storia della follia nell’età classica” di M. Foucault, ma l’immagine della “Nave dei folli” di Hieronymus Bosch era parte dell’immaginario dell’ambiente che mi circondava.
Poi Andai a Trieste e, dopo una visita all’Ospedale Psichiatrico, ebbe così inizio la mia esperienza: era previsto che i volontari andassero a risiedere nei centri esterni, insieme ai degenti appena dimessi, per aiutarli nel loro reinserimento sociale.
La vita accanto a persone che iniziavano a reimparare a prendersi cura di sé, che dopo decenni di regressione istituzionale, potevano scegliersi gli abiti, averne cura, personalizzare lo spazio abitativo, e incontrare i “normali” per la strada e al bar fu un’esperienza entusiasmante e … destrutturante. Nell’incontro quotidiano, fianco a fianco, prendevo infatti consapevolezza della dimensione più radicale della follia, del fatto che persone che, man mano che si umanizzavano, non abbandonavano comunque la dimensione del delirio; così restavano elementi di imprevedibilità che li rendevano, ai miei occhi, incomprensibili e che attivavano emozioni intense di paura e di angoscia.
Quindi insieme all’esperienza di partecipare ad un evento eccezionale che poteva essere racchiuso nel concetto di liberazione dei malati e di messa in crisi delle ordinarie convenzioni sociali (questa tensione ideale era ciò che animava il gruppo dei medici, degli infermieri e dei volontari) iniziò a prendere consistenza in me che c’era qualcosa di intrinseco, oggi direi di psichico, che andava certamente oltre la semplice equazione che faceva derivare la follia dalla malattia della società.
Certo avevo ben colto la differenza fra lo stato delle persone viste nel Reparto dei “laceratori” all’Ospedale Psichiatrico di Roma, visitato in precedenza, e l’umanità che iniziava a sbocciare nei volti dei degenti del centro di Aurisina in cui ero andato ad abitare: erano, questi, volti anonimi, vere e proprie maschere della follia.
DI NUOVO
Mi pare di poter forse cogliere in quanto tu dici l’incipit più autentico di ogni avventura analitica: ovverosia, il passaggio da una posizione concretistica e dogmatica (l’irrisolto è tra le cose del mondo e fuori di noi; trattandosi, in questo caso, della società borghese “schizofrenogena”) a una posizione che non schiva l’interdetto estraniante della follia e che, anzi, lo assume paticamente su di sé, facendosene carico e affrontando anche il periculum esistenziale che ne deriva. Penso, anzitutto, al valore etico di tutto ciò, ma vorrei anche aggiungere che senza questo passaggio forse non può darsi alcuna possibilità trasformazione simbolica.
DE MARINIS
Sì, la parola trasformazione meglio racchiude quell’insieme, fatto di elementi contrastanti, che quell’esperienza aveva attivato: da una parte il fascino per la follia e per il deragliamento dalla dimensione convenzionale che essa produce e la rottura dei limiti costrittivi della nostra convenzionale visione della realtà; dall’altra, la follia come dolore estremo, come vita vissuta solo in parte, chiusa, a volte, nel mondo angusto del delirio.
Proprio in un seminario sul delirio, tenuto nell’Ospedale psichiatrico di Trieste, incontrai l’opera di Carl Gustav Jung, che della follia ha sempre cercato il senso, la dimensione simbolica. In quegli anni iniziai infatti a leggere, visto con gli occhi di allora, un autore, Jung, per l’appunto, che aveva iniziato il suo lavoro in un ospedale psichiatrico, il Burghölzli, e che aveva cercato di dare un senso alle produzioni psicopatologiche, nel tentativo di curare quella che ancora chiamava la “malattia mentale”. Quindi, non solo umanizzare il folle, ma anche comprenderlo e curarlo, nel rispetto pieno della specificità di un “destino”, com’è implicito nel concetto cardine di individuazione.
In questi pochi concetti si può racchiudere l’inizio della mia avventura nel mondo analitico e il lascito dell’esperienza basagliana.
DI NUOVO
Quanto dici mi fa venire in mente un tema, penso, molto caro alla tua riflessione analitica. Mi ricordo, al riguardo, circa quindici anni fa, io ancora allievo in formazione, di un tuo seminario sullo specifico dell’assetto mentale dell’analista: ti soffermasti allora sull’ineludibile valore del farsi carico della responsabilità dell’altro; ove l’altro è però colto – e ciò, secondo alcuni tra i più avvertiti interpreti dell’opera di Basaglia, è il suo più fecondo lascito – innanzitutto, nella sua originaria dimensione d’immediatezza e di autenticità. L’attenzione in primo luogo, dunque, alla sua storia e a quel nucleo essenziale d’intimità che vi si dispiega, prima ancora che ad ogni formulazione e pre-comprensione teorica. Ma, se vogliamo, ciò potremmo anche considerarlo il presupposto fondativo dell’insegnamento junghiano. E, quindi, permettimi d’immaginare che non sia senza significato che tu abbia cominciato ad avvicinarti a Jung, proprio nel corso di un seminario in quel di Trieste…
DE MARINIS
Sì, insieme ad altri motivi che, come sempre, si scoprono dopo scelte e decisioni.
Ma in quel periodo ciò che più mi affascinava era la dimensione dell’azione, dell’atto trasformativo, che, nelle intenzioni Basaglia e del gruppo che intorno a lui si era creato: abbattendo le mura dell’ospedale, si sarebbe fatta crollare la separazione tra ‘Il sano e il malato’, tra ‘la normalità e la follia’.
La follia è una condizione umana che è presente in ognuno di noi insieme alla ragione, e la critica veniva rivolta certo alla strutture dell’esclusione, ma anche a tutte le istituzioni culturali, la cui funzione era quella di etichettare, codificare e fissare in ruoli congelati quelli che vi appartengono.
Solo in seguito, ho potuto capire quanto quell’orientamento fosse influenzato dalla cultura fenomenologico-esistenziale, una cultura che mette in primo piano il rispetto e il tentativo di comprendere la specificità del destino di ogni singolo essere umano.
La responsabilità si gioca quindi nell’accogliere quel destino e pensare che solo all’interno di quel destino le trasformazioni sono possibili.
Tornando a quel periodo, mentre l’azione politica “metteva tra parentesi la malattia mentale”, incontrai in Jung, nello Jung del Burghölzli, un altro tipo di azione: con la malattia mentale ci si confronta personalmente, nel tentativo di comprenderla e trasformarla. Per far questo è necessario “mescolarsi” personalmente con la follia, a volte compromettendo la propria “sanità”. Pensiamo all’esperienza con la Spierlein.
Sì, in quel “mescolamento” responsabile, risiede per me il lascito di maggior valore dell’esperienza del primo Jung, valore che credo accompagni il lavoro che, ogni giorno, ognuno di noi svolge.
Certo, oggi il mondo è cambiato e, nonostante la regressione della cultura psichiatrica, e non solo, verso una visione pseudoscientista di ritorno, la legge Basaglia ricorda agli operatori della salute mentale che incontrare l’umanità dell’altro è il primo atto veramente terapeutico.