
2018 Nuova Serie Numero 0 Setting Fuori Luogo
A CURA DI MANUELA TREVISI La rubrica Setting Fuori Luogo si propone di accendere l’interesse sulla tematica di come poter coniugare le due anime del terapeuta: psichiatra e psicoterapeuta di orientamento junghiano. Provocatoriamente, il nome della rubrica, Fuori Luogo, esprime una riflessione Fuori dai luoghi classici dell’analisi. Si propone di aprire una discussione sul contributo che la psicologia analitica in particolare e le diverse psicologie del profondo, possono offrire alle istituzioni, attraverso una visione, che nella pratica clinica quotidiana metta a fuoco una possibilità d’essere terapeuta/curante, non più esclusivamente vincolato alla tecnica, ma espressione di un proprio sentire.
Il campo relazionale nell’urgenza. L’intensità del contatto e dell’ascolto in una realtà istituzionale
Alle prime ore del mattino all’interno di un Ospedale ogni reparto si anima e anche il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) prende vita, spesso a causa delle continue proposte di ricovero sollecitate dalle urgenze del Pronto Soccorso.
Vorrei brevemente descrivere, con uno sguardo meno medico procedurale e più intimo, quello che può accadere quando in un luogo di acuzie arriva una urgenza psichiatrica.
Il senso di questo rapido racconto, che descrive la quotidianità lavorativa di uno psichiatra ‘profondamente’ accogliente, mi permette di riferire la convinzione che proprio nei luoghi dove l’incontro con l’altro si presenta apparentemente come una esperienza ‘selvaggia’, nelle sue modalità poco ortodosse e piene di contaminazioni e di rumori di fondo, proprio in quei luoghi, qualcosa di molto importante accade, se solo si è in grado di coglierne il senso profondo. Nella brevità di quei momenti così intensi, si celebra la costruzione di una relazione tra l’anima del terapeuta/curante e l’anima di colui che giunge con o senza la sua volontà nel luogo della cura. Quello che si può generare è una relazione abitata da significati densi, come una relazione in una stanza di un setting protetto. Queste densità si rendono possibili quando il terapeuta/curante è in grado di lasciare dentro di sé delle aperture eccezionali, di segno contrario agli abituali atteggiamenti di chiusura, costrizione, castigo, che si propongono durante l’incontro urgente.
Con queste premesse la storia di una esistenza che arriva all’urgenza può essere riscritta, ancora una volta, ma diversamente da sempre, nel modo breve, conciso, con la forma quasi telegrafica della consulenza, in cui le parole scelte colgono un senso diverso e profondo, carico di nuovi significati.
Il tema e anche la domanda che vorrei proporre con questo scritto è il seguente: Può un momento d’emergenza/urgenza rappresentare, per la qualità delle cose che appaiono e la quantità dei contenuti che emergono in un ritmo concitato, portare ad una densità nell’incontro, tale da configurare un campo relazionale autentico quanto un campo analitico? Questo interrogativo, inoltre, si inserisce in uno più ampio, su quale è il contributo offerto alle istituzioni, da chi ha radici culturali nella psicologia analitica.
Tengo a precisare che la breve descrizione di queste esperienze cliniche è raccontata con le sole informazioni tratte da reali consulenze di Pronto Soccorso che, seppure sono state volutamente spogliate di dati sensibili e più personali per il rispetto della privacy, non sono state private di quelle fondamentali caratteristiche utili a descrivere un modo diverso di incontrare la sofferenza dell’altro anche in un luogo di acuzie.
Alle ore 8.30 di un normale giorno della settimana, lo psichiatra inizia il suo turno di guardia e dopo un veloce commento sulle ultime questioni accadute, apprendendo le consegne, ripone il rumoroso cercapersone nel taschino del suo camice, così si prepara ad accogliere il primo squillo, che come atteso rompe una quiete impossibile.
Il triage che chiama dice: «dottore è arrivato con il 118 un tizio che dice di avere manie suicide».
A questo punto lo psichiatra pensa: «ci risiamo…» mentre i suoi occhi si chiudono in una smorfia infastidita e dolente, si chiede sorridendo: «che vorrà dire manie suicide?». Le parole così formulate non hanno mai molto senso psicopatologico e sicuramente denotano un atteggiamento sbrigativo e poco attento ad una dimensione profonda e all’altro, del resto la persona che arriva in Pronto Soccorso è un colore da assegnare con più capacità tecniche, che attenzione all’umana presenza, figurarsi se le premesse riguardano l’arrivo di una situazione psichiatrica. A questo punto il medico psichiatra ben addestrato, in caso di urgenza risponde con urgenza, ma nello stesso momento in cui si accendono i suoi sensi, è inevitabile che anche tutto il suo mondo interno si sveglia nello psichiatra, di qualunque formazione esso sia, ogni senso e ogni forma del sentire.
Con un codice giallo, di fronte allo psichiatra compare un personaggio molto conosciuto, oltre ad essere in cura presso il servizio territoriale, spesso giunge al ricovero in SPDC.
Questa volta Mario, come lo chiameremo, ha contattato da solo l’ambulanza, a cui ha riferito di sentirsi ansioso e agitato, in particolare pronunciando due parole che nella comunicazione hanno sortito l’effetto voluto, inducendo nell’interlocutore paura e di conseguenza determinando l’urgenza. Mario ha detto che ha voglia di farla finita…
A sirene spiegate, giunge così in ospedale, scende dall’ambulanza e come si conviene all’urgenza, prioritariamente viene accolto. Diffidenza, timore, fastidio come sempre riempiono l’aria al suo arrivo.
Accomunati da quest’atmosfera causata dalla loro presenza, lo psichiatra e il suo paziente si guardano e si sorridono, certamente si riconoscono uniti in quel momento dal medesimo destino distintivo.
La celebrità del disgusto dura poco per Mario e il suo psichiatra, i quali, infatti scompaiono presto nel posto a loro dedicato, il box della psichiatria, con arredo povero e essenziale.
Non appena i due rimangono da soli, Mario con voce calma chiede al medico se può abbracciarlo e ringrazia perché gli viene data questa possibilità, avrebbe voluto andare dal suo curante del CSM, ma non era sicuro che poi lì non si sarebbe arrabbiato se non avesse trovato la persona giusta.
La storia di Mario, quando giunge in Pronto Soccorso, viene brevemente riassunta e ogni volta si colora di una nuova informazione sulla sua vita. Vive in casa con la sorella maggiore, anche lei sempre sola e talvolta disperata. La sopravvivenza di entrambi è appesa all’invalidità di Mario, che se la è guadagnata per la sua diagnosi di psicosi affettiva così precoce e grave, che lo accompagna da quando aveva poco più di 20 anni. Nella storia di Mario c’è per lungo tempo l’uso di sostanze, utilizzate per mascherare la sua stramberia e rendersi socialmente accettabile dal gruppo di giovani scapestrati che frequentava. Per Mario la sua sofferenza attuale è facilmente spiegabile, sta male perché ha fatto uso di sostanze e ha fatto uso di sostanze perché aveva un brutto clima familiare ed economico.
Mario è un frequentatore assiduo del reparto di diagnosi e cura, il motivo dei ricoveri è sempre la lite con la sorella, unico essere umano che gli sta vicino, in seguito alla quale spesso minaccia e si fa del male. Una volta ha utilizzato un quantitativo di farmaci troppo elevato, mettendosi seriamente a rischio di vita. Da quel momento si è guadagnato la reputazione di paziente imprevedibile e grave, con il rischio di determinare un pensiero su di lui di allerta, meno prospettico e solo urgente.
Per molti il fatto di essere diventato così familiare in un Pronto Soccorso lo rende senza speranza. In realtà sembra che a Mario urge contattare delle valide relazioni umane e agisce la sua urgenza proprio in un luogo dove il bisogno di una tale richiesta può emergere con tutta la sua potenza e dove per necessità le barriere umane sono meno alte, in un Pronto Soccorso, infatti, è perfino possibile abbracciare il proprio medico.
Qualche ora dopo l’abbraccio con Mario, all’osservazione dello psichiatra, con il codice verde, giunge una donna di circa 44 anni, questa volta non è un paziente conosciuto, arriva da un Pronto Soccorso che non ha l’emergenza psichiatrica e chiede una valutazione del gesto anticonservativo della donna. Lo psichiatra si predispone al colloquio e scopre che si trova di fronte una donna che vuole parlare di quello che le è successo, dal viso non traspare solo la tristezza, ma qualcosa di diverso che comunica una dimensione di sofferenza altra. La donna racconta di essere stata curata da uno psichiatra, dal quale ad un certo punto ha deciso di non andare più e aggiunge che una sorta di ‘illuminazione’ riguardo alla sua sofferenza le avrebbe comunicato, che l’unica cosa da fare sarebbe stata quella di ‘togliersi di torno’, per questo motivo avrebbe concretamente agito il gesto anticonservativo, che ora la stava conducendo a questa osservazione.
Non è la prima volta che prova sentimenti di tristezza di questo tipo, la prima fu alla nascita delle due figlie gemelle, che ora hanno 7 anni, ma adesso si sente guardata, spiata come se tutte le persone che incontra potessero leggerle il pensiero, questo, dice, non le era mai capitato così forte e quindi deve proprio essere vero.
Non ha molti dubbi che il mondo sia contro di lei, anche il suo curante. Non riesce più a fidarsi di nessuno, la perdita di fiducia nell’altro la rende ancora più triste e angosciata. In realtà non capisce cosa sia nato prima, se è la tristezza, che le fa perdere fiducia nel mondo o è la progressiva e lenta mancanza di fiducia, che le genera tristezza.
Nel colloquio ci sono lunghi momenti di silenzio, ma quando la donna parla, sembra liberarsi di un peso. Mentre racconta di sé, sta attivando quella fiducia che dice di non possedere più, è la prima volta che vede quello psichiatra, eppure gli si sta affidando. Il medico non può evitare di considerare questo significativo comportamento e si chiede come poter fare affinché la paziente a sua volta se ne renda conto.
La donna a tal punto si affida, che rivela la convinzione delirante primaria: pensa che gli altri avrebbero cominciato ad esserle ostili solo dopo un suo comportamento illecito, avrebbe, infatti, donato loro il suo sangue infetto. Di questo ne è profondamente convita, nel colloquio trasmette una potente angoscia che impedisce a qualunque dato di realtà di scalfire la cortina del fumo della colpa.
Alla fine dell’incontro la paziente è stanca, è molto tempo che non parlava con qualcuno, lei stessa chiede di potersi riposare fermandosi lì, vuole rimanere dove si è sentita accolta nell’ascolto.
Questi brevi racconti mostrano l’incontro in un luogo istituzionale con due storie che sottendono importanti vissuti di angoscia e solitudine. I momenti descritti sembrano consumarsi rapidamente e si sciolgono quando si crea la possibilità di agire due richieste apparentemente semplici, ma che aprono una dimensione nuova di contatto e di ascolto. All’interno del Pronto Soccorso sembra crearsi l’occasione per una vicinanza fisica, che in una delle due esperienze esita concretamente nell’abbraccio, determinando un forte contatto emotivo, in grado di comunicare la speranza che qualcosa andrà diversamente.
L’abbraccio in quel luogo ospedaliero rende concreta la compassione, che sempre lega lo psichiatra al paziente e rappresenta la comune modalità di afflizione (cum-patior), che è prezioso strumento di partecipazione al dolore dell’altro. Questa rappresentazione così potente della compassione può rendere diversa e unica la altrimenti sempre solita esperienza dell’urgenza, rompendo il ripetersi strenuo del medesimo modo di intendere i fatti, cambiando la visione di ciò che accade, come se avvenisse per la prima volta.
L’opportunità di incontrarsi in questo modo, quando sapientemente colta, genera la possibilità di rapide alleanze. Tutto ciò accade per prima cosa perché c’è la promiscuità di un luogo di urgenza, che determina una dimensione di contatto-contagio psichico pervasiva, penetrante, perché inevitabile e irrimediabilmente intrusiva.
D’altra parte la pretesa del luogo, in cui avviene questo tipo di incontro è la rapidità di esecuzione e così le storie psichiche si riassumono sulle cartelle di pronto soccorso, assumendo un andamento in cui si mostrano con più evidenza i vertici della sofferenza. Il profilo che ne esita è una sorta di orizzonte contraddistinto da vette di dolore, picchi, come acuti, che prepotenti saturano l’ascolto del curante, costringendolo a una comprensione profonda.
Questi luoghi di emergenze, che per nulla assomigliano ai setting analitici, sono però generatori di un campo relazionale, che lascia una traccia di un incontro esistenziale che, se trova nello psichiatra l’ascolto profondo, può rappresentare l’inizio di un nuova esperienza donatrice di senso.
La riflessione fino a qui prodotta può sicuramente inserirsi all’interno di una tematica, che ha trovato già ampio dibattito e che cerca di capire come possono coniugarsi le due anime del terapeuta, psichiatra e psicoterapeuta, intendendo per quest’ultimo il significato junghiano, inclusivo dei diversi metodi di accostamento alla sofferenza psichica e quindi anche dei metodi psicoanalitici (Jung 1929, p. 63).
Jung stesso, pur essendo medico psichiatra, nello scritto Medicina e Psicoterapia, esordisce dicendo di trovare difficoltà quando parla ad un uditorio di soli medici (Jung 1945, pp. 95, 98, 99).
Tra psichiatria e psicoanalisi è noto che per lungo tempo non è corso buon sangue, la comunità psicoanalitica è rimasta ostile al discorso sull’istituzione e viceversa e, come dice in un suo articolo Giovanni Foresti, la psicoanalisi aveva un’attitudine antistituzionale (Foresti 2012).
Nel tempo sono stati fatti vari tentativi di avvicinamento, pur mantenendo un atteggiamento cauto, per evitare che l’analista, uscendo fuori dai confini del suo setting, mettendosi ad applicare, in modo improvvisato, alla realtà sociale e istituzionale concetti clinici e strumenti interpretativi costruiti e validati in contesti ben diversi, come diceva Bion, potesse produrre solo pseudoconoscenza o bugia (Bion 1962, 1970).
Ad oggi, quindi, gli sforzi più rilevanti di integrazione tra cultura analitica e cultura istituzionale, sono stati quelli di innestare nel corpo dell’istituzione pratiche o programmi di cura ispirati al metodo psicoanalitico, come psicoterapie lunghe e brevi terapie focali, di gruppo e supervisioni ad orientamento analitico.
D’altra parte una ulteriore interessante proposta di integrazione fra i due sistemi, ancora in corso di riflessione, è di utilizzare la psicoanalisi per comprendere in termini psicodinamici la risposta del sistema curante a tali innesti ed evitare per esempio reazioni di rigetto che interrompono questo tentativo, come infatti era accaduto a Bion all’ospedale di Northfield (cfr. Bridger 1985).
Correale in vari lavori ha parlato di analisi del ‘campo istituzionale’, ovvero osservare attraverso la psicoanalisi l’istituzione nelle sue dinamiche relazionali come contenitore di processi emotivi e organismo umano multipersonale.
In questo modo si tende a considerare le istituzioni isomorfiche – utilizzando un termine di Kaes (1976, 1987) – in quanto dotate di processi e dinamiche organizzative dal comportamento simile ai problemi che sono chiamate a risolvere. Secondo questa ipotesi, le relazioni di ruolo coinvolte si impregnano, attraverso flussi originati dai processi di scissione e proiezione, di tutte le difficoltà, le problematiche e persino dei sintomi degli utenti.
La formula suggerita da Hinshelwood e riportata dai lavori di Correale è la «creazione di uno spazio riflessivo» (Hinshelwood 2000; Correale 1991) nel sistema della salute mentale, una sorta di «contenitore istituzionale» sufficientemente solido, illuminato e sicuro, che sia in grado di svolgere il suo fondamentale compito trasformativo, quello di mobilitare risorse di pensiero (rêverie, funzione alfa), per bonificare i derivati tossici della psicosi individuale e di quella organizzativa, convertendoli in valore aggiunto in termini di consapevolezza e di benessere (Foresti – Fubini – Perini 2011).
Pur considerando questi interessanti spunti di riflessione, che si legano prevalentemente alla possibilità di integrare il metodo psicoanalitico nel lavoro istituzionale, dopo aver ricordato, che proprio a Jung va dato il merito di avere smascherato una psicopatologia istituzionale, in realtà, nel breve scritto proposto vorrei azzardare un tentativo di risposta alla domanda iniziale, sottolineando quello che ritengo essere il vero contributo che l’essere analista porta all’interno del lavoro istituzionale. Essere analista vuol dire come ricorda Jung che ogni psicoterapeuta non possiede soltanto il suo metodo, ma è egli stesso quel metodo. Ars totum requirit hominem, secondo il detto alchimistico (ivi, p. 99). Come dice Aurigemma, traducendo le parole di Jung, l’attività psicoterapeutica non è solo un esercizio di competenza specifica, ma è arte nell’ampio senso umanistico della parola e richiede intuizione, ispirazione, conoscenze vaste, esperienza vissuta, libertà dai pericoli della superbia e consistente etica, che permettono un efficace confronto con la psiche sofferente. Concepire la psicoterapia in questo modo, significa rimettere al centro l’incontro tra le totalità di due sistemi psichici (cfr. Jung 1935a, p. 12 e sgg.). In altre parole come l’essere terapeuta non significa agire la propria tecnica, così l’essere soggetto sofferente, non vuole dire avere una diagnosi predefinita. Jung a questo proposito dice: «la psicoterapia è o dovrebbe essere la prima a sapere da tempo che suo oggetto è un essere umano disturbato nella sua totalità […]» (ibidem). Il coinvolgimento di due totalità senza differenziazioni precostituite, permette di riconsiderare la possibilità di usare l’analisi con il paziente grave o per meglio dire di essere analisti a prescindere dal tipo di sofferenza che si ha di fronte e dal luogo in cui avviene l’incontro. Parlare del peso della relazione piuttosto che della definizione del metodo psicoterapico, permette di spostare sull’incontro piuttosto che sulla diagnosi l’accento di una nuova visione del trattamento.
In azione all’interno dell’istituzione, mi sembra possa funzionare bene l’immagine di un terapeuta come emerge dal discorso junghiano, che ha nella sua personalità, e non nello schema dottrinario, il grande fattore di guarigione. Questo psicoterapeuta può riuscire meglio a creare un clima di ascolto anche in situazioni di complessità urgente, sia lavorando con gli aspetti della sua dimensione individuale, sia utilizzando l’importante fattore della creatività, determinando un procedimento dialettico, che compara dati reciproci e lascia agire la ‘natura’ (cfr Jung 1935, pp. 31-32) Per lavorare con la patologia mentale, anche quella grave, la proposta è quindi di sospendere le categorie mentali e il potere dell’intelletto ed essere disposti ad entrare più pienamente nel profondo della psiche fino a poter mettere tutto in discussione e riorganizzare e rifondare un nuovo assetto possibile, anche generatore di nuove visioni del mondo. Inoltre, l’inconscio collettivo contribuisce a creare il nuovo assetto poiché, permettendo di collegare il materiale psicotico alle conoscenze, aiuta il ricercatore a costruire un ponte tra individuale e collettivo, tra presente e passato, così da determinare un particolare atteggiamento mentale ed emotivo, che può essere tenuto verso il paziente ovunque ci si trovi.
Jung stesso dice che occorre utilizzare ogni parte di sé e della propria conoscenza per entrare in relazione:
se l’esercizio dell’attività terapeutica presuppone una conoscenza perfetta della psichiatria, un’analisi dei sogni, in qualche modo adeguata, richiede un’ampia conoscenza dei simboli, che può essere acquisita soltanto attraverso lo studio della psicologia primitiva, della mitologia e della religione comparata (ivi, p. 33).
Una nuova visione della sofferenza psichica, ma anche di colui che è chiamato ad intervenire al riguardo, ha permesso alla psichiatria ufficiale di riconsiderare la malattia mentale come accidens nel percorso di vita di un individuo, ovvero occasione necessaria per una crisi rifondativa, al contrario di quanto istituito dalla visione jaspersiana della malattia come declinazione medica di un quid incomprensibile, che colpisce l’individuo nella interezza delle sue funzioni biologiche, psicologiche e sociali. La nuova visione del dolore psichico e dell’essere curante, espressione stessa della terapia e non ingabbiato in una teoria, permette di porsi nei confronti del malato psichico in modo differente, stabilendo con il paziente un rapporto non di reclusione ma di ascolto. Tale è il modello medico che Jung adotta, caratterizzato da affetto, benevolenza, tolleranza, scambio, senza rinunciare alla autorevolezza e dunque alla possibilità di influenzare. Il modello proposto da Jung basato su un atteggiamento relazionale naturale ed umano carico di emotività, non è solo diverso dalla proposta di analista specchio o terapeuta impersonale, ma anche dalla figura dello psichiatra mero esecutore di un intervento rapido ed efficace, nella logica esclusiva del trattamento farmacologico, che ‘prima si somministra, prima funziona’. In altre parole si tratta di proporre una nuova posizione analitica di una ‘neutralità particolare’, come viene definita nell’articolo di Antonino Lo Cascio (1983, p. 31), che deriva dalla rinuncia all’uso di una conoscenza a priori. Questa consapevole assenza di conoscenza, che non è assenza, ma astensione dalla conoscenza, aiuta il terapeuta a collocarsi in una posizione di non sapere, che è la migliore situazione per apprendere direttamente dal materiale del paziente, senza prevaricare con il proprio giudizio. Tale neutralità è sostenuta dalla creazione di un rapporto terapeutico ottenuto attraverso una modalità di incontro, che va oltre il tempo o il luogo ove si configura, si tratta di uno spazio interrogativo e psichico fatto di immagini e di parole comuni, che permettono fin dal principio di stabilire un contatto e di generare una relazione, pur nelle sue forme diverse. Costruire una apertura di senso prelude alla possibilità che un intervento urgente non sia solo uno scontro, ma un incontro, in cui può accadere qualcosa di nuovo e inatteso.
I due casi raccontati brevemente, riferiscono di due situazioni il cui epilogo si rappresenta, con inattesa semplicità, in un abbraccio e in una esplicita richiesta di ascolto. La possibile comparsa del nuovo inatteso, là dove si sono create le condizioni umane per accoglierlo, sottrae al lavoro psichiatrico nelle istituzioni quell’area di trauma, dolore e fatica, a cui inevitabilmente quando si affronta una urgenza tutti i soggetti presenti sono esposti.
In conclusione penso, che non solo sia possibile rispondere positivamente alla domanda proposta all’inizio di questo lavoro, ma ritengo anche che utilizzare la propria formazione analitica, non come tecnica, ma come dimensione del sentire, appartiene ad una psichiatria capace di rinunciare alla esclusività della custodia e della biologia e rappresenta un modello di operare alternativo a quelli già esistenti, forse più aperto di altri alle infinite varianze dell’umano, forse per questo paradossalmente più fruibile nelle situazioni complesse e imprevedibili dell’urgenza.
Bibliografia
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- Lo Cascio A. 1983, Jung e la psichiatria. Un possibile aggiornamento dell’approccio terapeutico, in «Rivista di Psicologia Analitica», 27/83, Astrolabio, Roma.
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- Il campo relazionale nell’urgenza – Manuela Trevisi • 204 kB • 11 download