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Gandhi e Jung, Libro Rosso e non-violenza: alcune considerazioni per l’oggi

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

QCJ 2015

2015 Numero 4

Gandhi e Jung, Libro Rosso e non-violenza: alcune considerazioni per l’oggi

Sebbene Jung abbia lavorato al Libro Rosso proprio negli anni in cui Gandhi – rientrato nel 1915 dal Sud Africa nel suo paese natale – portava la nonviolenza al cuore della lotta per l’indipendenza dell’India, non sembra possibile rinvenire alcun legame diretto, e tantomeno un’influenza reciproca, fra il lavoro dello psicologo svizzero e quello del Mahatma. Ma oggi, anche grazie alla pubblicazione del Libro Rosso (Jung C.G. 2009), è possibile avviare una più approfondita riflessione su possibili punti di contatto fra l’opera di Jung e l’azione politica di Gandhi. Punti di interesse per il mondo contemporaneo, soprattutto se calati, secondo una linea di pensiero che sto sviluppando da alcuni anni1, nel contesto del dialogo interculturale fra Oriente ed Occidente, sempre più nevralgico nell’era della globalizzazione. Sono tutti punti che ruotano attorno al ruolo della sofferenza, centrale sia nella psicodinamica junghiana che nella nonviolenza gandhiana, e quanto mai importante per la comprensione delle odierne dinamiche socio-economiche globali. Essi parlano un linguaggio per certi versi comune, profondamente radicato nella dimensione immaginativa della psiche che, da un lato, si esprime nel valore mitopoietico che essa ha per Jung e, dall’altro, si incarna nel concretismo orientale particolarmente vivo in Gandhi.

Gli stessi Hillman e Shamdasani, nel loro libro Il Lamento dei Morti (Hillman J.-Shamdasani S. 2014), sottolineano come la sofferenza sia al cuore del pensiero di Jung nel Libro Rosso. Una sofferenza la cui chiave va rintracciata nella nozione di «perdita di significato» (ivi, p.130), di perdita di orientamento dell’individuo moderno. Una nozione in cui, potremmo forse dire oggi, il processo di individuazione junghiano trova il suo più compiuto alveo culturale e storico, proprio in quanto  la perdita di significato non è mai fenomeno esclusivamente personale, ma da analizzare sempre nel più ampio contesto archetipico e collettivo. E forse non per caso, comunque di fatto proprio specularmente alla riflessione sulla sofferenza di Jung, negli stessi anni in cui lo psicologo svizzero si cimentava in Svizzera con il Libro Rosso, in India Gandhi, nonostante l’iniziale scetticismo delle élites socio-politiche indiane, riusciva a trasformare la nonviolenza – mutuata, come vedremo, dall’antichissimo concetto di Ahimsa – nell’elemento vivificatore ed apportatore di senso per un intero paese in uno dei momenti più bui della sua storia. Un momento in cui la lotta per la libertà dal dominio straniero dell’India si univa all’altrettanto problematica ricerca di maturità collettiva come nazione, alle prese con la enorme complessità del retaggio storico di credi e culture.

La sofferenza nel Libro Rosso e nella non-violenza

Muovendosi su questo sfondo, emerge chiaramente l’importanza del passaggio chiave che Jung dedica alla sofferenza nel Libro Rosso. Un passaggio che appare suscettibile di aprire un dialogo interdisciplinare ed interculturale fra psicologia del profondo e filosofia della nonviolenza. Il passaggio è al termine del Libro Rosso, nell’ultima frase, laddove si parla di «bellezza della sofferenza». Per l’esattezza è l’ombra che dice a Jung «Io ti porto la bellezza della sofferenza. È quello di cui ha bisogno chi ospita il verme» (ivi, p.359). Sappiamo che Jung ha definitivamente smesso di lavorare al Libro Rosso nel 1930 – lo spiega lui stesso al termine del libro – a seguito dell’inizio dei suoi studi sull’alchimia. Come stiamo per vedere, la questione della datazione dell’espressone «bellezza della sofferenza» non è di secondaria importanza. Ma prima occorre ricordare un altro passaggio del Libro Rosso dedicato alla sofferenza.

Mi riferisco alla seguente frase: «Vivere se stessi significa essere il proprio artefice. Non dire mai che é un piacere vivere se stessi. Non ci sarà gioia ma una lunga sofferenza, poiché devi diventare il tuo proprio creatore. Se vuoi creare te stesso, allora non cominci con il meglio ed il più elevato, ma con il peggio ed il più profondo. Di conseguenza di che sei riluttante a vivere te tesso. Il fluire assieme della corrente di vita non é gioia ma pena, poiché è potere contro potere, colpa, e distrugge il santificato» (ivi, p.249). Da questa visone, indubbiamente venata di pessimismo, Jung arriva invece, nel seguito del libro e verosimilmente molti anni dopo, a sviluppare il concetto di «bellezza della sofferenza». Perché? Qual è il senso di questa evoluzione?

Premettendo che in una recente conversazione con lo stesso Shamdasani mi è stato confermato che Jung non ha lasciato indicazioni, neanche nel Libro Nero, su eventuali fonti di ispirazione del concetto di «bellezza della sofferenza», ritengo che un aiuto alla riflessione possa venire da un’altra opera di Jung, che è stata scritta – ed é qui che diventa rilevante la questione delle date – proprio a cavallo degli anni venti e trenta. Mi riferisco al Seminario sull’Analisi dei Sogni (Jung C.G. 2003), tenuto fra il 1928 ed il 1930. Qui troviamo il Sogno 14, che viene analizzato da Jung nella Conferenza del 29 maggio 1929 (ivi, p.252). Il legame fra questo sogno ed il concetto di «bellezza della sofferenza» è dato dal simbolo del verme. Se nel Libro Rosso il verme appare più volte, nel Seminario sull’Analisi dei sogni esso appare solo nel Sogno 14. Ed una apparizione ad una prima analisi assai negativa, giacché danneggia gravemente un raccolto di cotone cui il sognatore tiene in modo particolare. Ma in realtà nel commento che Jung fa a questo sogno emerge pian piano una riflessione di tutt’altro segno. Il sogno è studiato in una data molto vicina alla conclusione del Libro Rosso, ed è dunque ancora più significativo analizzare il commento al simbolo del verme che fa Jung in quel Seminario. Sebbene non arrivi ad usare il concetto di bellezza, l’insieme del commento sembra portare proprio a tale conclusione. Ecco gli elementi che – in un notevole crescendo di intensità – Jung ci fornisce sul simbolismo del verme nella Conferenza del 29 maggio 1929:

«Nel simbolismo del Verme c’è in primo piano il fatto che ogni segmento del verme è un animale a sé […]. Vita a scomparti a segmenti» (ivi, p. 257); «Il pericolo è sempre quello di una disintegrazione e di una dissociazione della coscienza in scomparti» (ivi, p. 257); «..quando le persone entrano in contatto con l’inconscio collettivo. Hanno paura che un verme entri nel loro cervello» (ivi, p. 258); «Il verme comincia a vivere dentro la capsula [di cotone] e distrugge la condizione di innocenza. L’inizio della vita mentale, della vita psichica, è secondo il simbolo, l’inizio del male» (ivi, p. 259); «[Il Verme] è il primo inizio di dissociazione nel continuum perfetto della vita indifferenziata. È, apparentemente, la sorgente del male. […] È un simbolismo molto antico, è il problema dell’inizio del male o della sofferenza, in un certo qual modo il problema del’inizio della conoscenza. È come se un sogno del genere rispondesse all’eterna domanda dell’uomo: perché soffro, qual’é la causa della mia sofferenza?». (ivi, p. 260); «Il verme è davvero distruttivo? […] Questo inizio della sua vita psichica in tutta la sua distruttività, ha un certo scopo? Non si diventa consci se non si soffre!» (ivi, p. 260); «Se si considera la coscienza una grande conquista, il verme è importantissimo» (ivi, p. 261); «Non importa quanto distruttivo sembra il verme all’inizio, sarà il vostro maggior benefattore, perché vi arrecherà il germe della vita, la gnosi della vita». (ivi, p. 262).

Come dicevo, Jung non usa mai nelle pagine dedicate al commento del Sogno 14 il concetto di «bellezza della Sofferenza», ma è indubbio che la sua analisi porta a questa conclusione logica. D’altra parte l’espressione «germe della vita» è qualcosa di molto forte, di estremamente positivo, ed in ultima analisi evoca, appunto, qualcosa di decisamente bello. Ma prima di continuare l’analisi del senso della sofferenza nel Libro Rosso per Jung è necessario fare una incursione sul versante indiano.

Ora, l’anno in cui Jung ha abbandonato il suo lavoro sul Libro Rosso, il 1930, è una data che per i cultori nella nonviolenza riveste una grande importanza. Fra il marzo e l’aprile del 1930 Gandhi compie infatti la famosa “Marcia del Sale”, la seconda grandiosa manifestazione collettiva nonviolenta della sua azione politica trentennale per liberare l’India del giogo coloniale. Una manifestazione di massa che ebbe una risonanza mondiale, che vivificò l’intero movimento indiano per l’indipendenza come mai nulla prima, che fu contrastata con l’uso della forza – con numerosissimi feriti – ma senza dar luogo a nessuna reazione violenta, e che si concluse con l’arresto di Gandhi e di altri oltre 80.000 indiani. Sebbene gli inglesi non fecero alcuna concessione politica a seguito della “Marcia del Sale”, nondimeno essa è ritenuta uno spartiacque nella storia dell’indipendenza dell’India giacché milioni e milioni di indiani che non avevano mai preso parte prima a tale lotta scesero definitivamente in campo accanto al Mahatma. Non solo, ma a differenza del precedente esperimento, il campagna nonviolenta del 1921-22 che dovette essere interrotta da Gandhi a seguito di esplosioni di violenza omicida da parte dei manifestanti, la “Marcia del Sale” riuscì a preservare il suo carattere nonviolento, testimoniando una crescita morale collettiva indubbia. Non è un caso se essa colpì l’immaginario collettivo globale al punto di diventare l’evento che influenzò più di ogni altro i grandi attivisti nonviolenti che anni dopo seguirono l’esempio di Gandhi, da Martin Luther King jr. a James Bevel a tanti altri attivisti nelle lotte per i diritti civili negli Stati Uniti degli anni ’60, e sulla loro scia intere generazioni di leader politici nel mondo intero, da Mandela a Havel.

Nella nostra analisi due sono gli elementi di rilevo da prendere in considerazione nella nonviolenza come incarnata da Gandhi. Il primo è la dinamica interiorità-esteriorità. Gandhi trasformò un concetto vecchio di millenni, l’Ahimsa, presente in tutte e tre le più antiche religioni – induismo, buddismo e jainismo  – emerse nel sub-continente indiano, da fattore soteriologico di salvazione individuale (non arrecare danno ad alcun essere vivente quale regola maestra nel percorso personale di liberazione), a strumento di lotta socio-politica. Soprattuto nel mio libro Dharma Aperto (Petri F. 2014) ho esaminato a fondo la metamorfosi, una vera e propria  rivoluzione, operata da Gandhi sul concetto originario di Ahimsa e di conseguenza sul ruolo che la persona impegnata nell’azione nonviolenta, il satyagrahi, deve avere nel mondo (laddove, invece, il tradizionale ricercatore di libertà, sannyasin, si ritira dal mondo). Questo atteggiamento implica il valore dialogico della nonviolenza: soffrire senza restituire la violenza a chi l’ha perpetrata, mirando ad aprire un dialogo con il nemico nel cui animo si può aprire uno spazio di cambiamento grazie alla nobiltà dell’atteggiamento del satyagrahi. È ciò che pensatori come Panikkar hanno definito dialogo dialogante o apertura sistematica al dialogo (Panikkar R. 2002). Un’apertura che è, e non può che essere, totale, davvero dialogica, giacché, come ha sottolineato lo psicoanalista Erik Erikson nel suo bellissimo saggio La Verità di Gandhi (Erikson E. 2014), chi si incammina nel percorso nonviolento deve essere pronto non solo ad illuminare ma anche a farsi illuminare, non solo a convincere ma anche a farsi convincere.

Il secondo fattore di rilevo è di carattere epistemologico. Per Gandhi il credo nella nonviolenza trova il suo fondamento in una visione olistica. Come disse in un colloquio apparso poi sulla rivista Harijan il 24 dicembre 19382 ed incentrato su Hitler e Mussolini, «[…] la fede nella nonviolenza si basa sull’assunto che la natura umana nella sua essenza è una, e dunque necessariamente è sensibile all’azione dell’amore». Anche in questo Gandhi si ispira a tradizioni indiane. L’unità del genere umano è infatti una applicazione del principio non-duale della scuola indù del Vedanta, che postula l’identità fra l’anima individuale (atman) e anima universale (Brahaman). In questa visione olistica l’Ahimsa può dunque produrre effetti giacché ogni anima ha la potenzialità di esserne toccata, alberga la potenzialità di auto-redimersi. Ecco perché per Gandhi l’Ahimsa è suscettibile di produrre effetti sociali e può essere dunque utilizzata come fattore di trasformazione nell’arena socio-politica e, cosa meno risaputa, in quella economica. Ne discende che per Gandhi non è concepibile un impegno sociale e politico scevro da un percorso di rafforzamento interiore, quello che tradizionalmente è richiesto a chiunque pratichi l’Ahimsa, e ciò tanto sul piano individuale che collettivo. Per questo varò il famoso “programma costruttivo” per gli indiani, al fine di produrre cambiamenti in alcuni atteggiamenti del suo popolo che riteneva sbagliati, quali la discriminazione verso gli intoccabili.

Non sono pochi i punti di contatto del pensiero di Gandhi con gli elementi che abbiamo visto in nuce nel concetto di «bellezza della sofferenza» del Libro Rosso di Jung, i quali ci parlano di conoscenza attraverso l’apertura alla dimensione collettiva dell’inconscio.  È ciò che in seguito Jung chiamerà archetipi, e che nel Libro Rosso trova una sua particolare espressione nel termine «Lamento dei Morti», come ci ricordano Hillman e Shamdasani, che non a caso hanno scelto questa espressione per dare il titolo al loro libro. Una sensibilità che, proprio come nella visione nonviolenta di Gandhi, mira ad accomunare l’umanità, a coglierla con uno sguardo interconnesso che si muove sempre tra passato, presente e futuro. Uno sguardo venato necessariamente di olismo. D’altra parte anche nelle sue opere finali Jung ha più volte sottolineato l’esigenza di riconoscere, e comprendere in tutte le sue implicazioni, l’unità del genere umano (Jung C.G. 1986). Ma è tutta la sua visione psicodinamica, come ben emerge anche nel Libro Rosso, che coniuga la sofferenza con la conoscenza, la presa di coscienza con il progresso, l’individuazione con l’integrazione. Vi è una ben nota tensione etica in Jung, che scaturisce dall’interazione fra dimensione soggettiva e collettiva, personale e archetipica, che appare notevolmente in linea con il sentire di Gandhi.

Come tutte le visioni etiche basate sull’apertura all’altro attraverso il lavoro su sé stessi, esse presuppongono e chiedono una relativizzazione, un’umiltà ed una disponibilità al dialogo che sono sempre necessariamente legate ad una costruzione di una interiorità il più possibile scevra da egoismi e giochi di potenza. Se guardata sotto il profilo squisitamente psicologico, una corretta comprensione delle dinamiche nonviolente coinvolge appieno la questione, eminentemente Junghiana, dell’integrazione dell’ombra e del ritiro delle proiezioni. Si tratta di punti che, sebbene non espressi in termini concettuali, sono al cuore del percorso di Jung nel Libro Rosso. D’altra parte sia la discesa in campo politica di Gandhi con la sua nuova incarnazione dell’idea di nonviolenza, sia l’avvio di un percorso nuovo da parte di Jung con il Libro Rosso, sono strettamente legati al clima particolarmente intriso di sofferenza di quel tempo – sia collettivo, la colonizzazione, la Prima Guerra Mondiale; sia individuale, la perdita di senso, il sentirsi incompresi – che domandava probabilmente proprio nuovi orizzonti di pensiero, sentimento e azione. Nuove forme di prese di coscienza.

La base mitopoietica della mente ed il ruolo di Shelley

Sia il simbolismo del verme in Jung, con il suo paradigma di sofferenza come conoscenza, sia la prassi nonviolenta di Gandhi che ingloba la sofferenza in una visione olistica costruttiva, trovano un comune terreno nel valore delle dinamiche interiori e nel ruolo attribuito alla psiche. Sono molto appropriate le riflessioni che ne Il Lamento dei Morti Hillman ci offre sul tema della base mitopoietica della mente. Il ruolo degli archetipi è da lui riassunto usando i versi del poeta Auden, «Siamo tenuti in vita da poter che fingiamo di capire […] » (ivi, p.48). Anche qui forse non è un caso che Auden sia uno dei più importanti pacifisti del suo tempo, vicino a Hisherwood – altro pacifista poi convertitosi all’Induismo  – ed a tutta una corrente di artisti, scrittori (in primis Aldous Huxley) e pensatori inglesi emigrati negli Stati Uniti, in particolare la California. Il loro pacifismo ed il loro credo nella forza dell’immaginazione ci riportano a Gandhi ed all’importanza che per lui, come per molti orientali ed in particole indiani, ha il cosiddetto concretismo della mente. I miti e le immagini delle tradizioni sono vissuti nella mente come forze reali. In questa maniera viene agevolato il rapporto con la realtà, di cui ne aiutano la comprensione, come osserva lo psicanalista indiano Sudhir Kakar (Kakar S. 2009). Questo legame fra concretismo, capacità mitopoietiche della mente e poesia è un elemento particolarmente rilevante per entrare nelle vene della nonviolenza di Gandhi.

Non è infatti molto noto, ma nel percorso personale che ha portato Gandhi ad abbracciare «come scelta e non per tradizione» (Gandhi M.K. 1927) la nonviolenza, un ruolo non secondario lo ha avuto anche la Poesia. In particolare su di lui ebbe notevole influenza il grande poeta Romantico Inglese Percy Bysshe Shelley. Gandhi da giovane avvocato a Londra venne a conoscenza del poema nonviolento di Shelley La Maschera dell’Anarchia e fu portato anche da questo fattore a riscoprire l’importanza delle sue tradizioni nonviolente. Se La Maschera dell’Anarchia è il primo poema nonviolento scritto in Occidente esso è anche un poema politico, che contiene un durissimo attacco al Governo ed alle istituzioni britanniche (venne scritto nel 1819 a Pisa all’indomani del massacro di sindacalisti avvenuto a Peterloo, vicino a Manchester), al punto che Mary Shelley dovette attendere lunghi anni – e Shelley era da tempo scomparso – per riuscire a pubblicarlo. Esso sarà usato spesso da Gandhi in India durante la lotta di liberazione contro i britannici. Cosa che per certi versi può apparire paradossale, ma non lo è in realtà più di tanto giacché Shelley ha rappresentato in La Maschera dell’Anarchia un conflitto – attuale anche ai tempi di Gandhi e, purtroppo, oggi forse ancora di più – fra oppressi e autorità, dove la protagonista, una ragazza di nome Hope che ha perso tutti i familiari di stenti, malattie e violenza, invece di usare la violenza si ribella usando la nonviolenza e trasforma la battaglia disperata in una vittoria.

Questo poema ci porta al legame fra immaginazione e poesia da un lato, e sofferenza e nonviolenza, dall’altro. La capacità immaginativa e creativa di Shelley è notoriamente enorme. Eppure in La Maschera dell’Anarchia riesce ancora a sorprenderci perché immagina qualcosa di veramente inaudito, se solo pensiamo a quel momento storico: la reazione nonviolenta. Con ciò conferisce, per i suoi tempi, una forma nuova all’esperienza della sofferenza. La sua forza di immaginazione si unisce ad un intuito che coglieva i cambiamenti in atto. Basti pensare all’etica della compassione che proprio in quel periodo Schopenhauer stava cominciando ad elaborare. Lo spirito di Shelley dominava i circoli che a Londra Gandhi – in ragione del suo essere vegetariano – settanta anni dopo di trovò a frequentare. Sappiamo oggi che la presa di coscienza di Gandhi e la sua conseguente azione nonviolenta –  dapprima in Sud Africa, e poi in India – fornirà a sua volta ispirazione al mondo intero. Un percorso di presa di coscienza strettamente legato all’immaginazione ed al rapporto con la propria interiorità che può aiutarci a sua volta nella riflessione su Jung e la sofferenza. Soprattutto riflettere sull’importanza del Verme, della presa di coscienza responsabilizzante legata all’interazione con le dinamiche collettive della psiche.

Qui appare essenziale il contributo che ne Il Lamento dei Morti Hillman ci da alla comprensione del Libro Rosso, e segnatamente alla comprensione del ruolo del fattore immaginale dell’individuazione. È un passaggio in cui il grande psicologo americano sottolinea come ci si debba spingere fino «[…] al punto da cominciare a immaginare se stesso come un elemento della storia. Il che è diverso dall’immaginare se stesso come colui che da fuori dice: “le racconto la mia storia”. La sensazione di essere “tenuti in vita” da una storia è molto diversa» (ivi, pp. 87-88). È un passaggio chiave per l’intero Il Lamento dei Morti giacché è proprio sulla scia di queste riflessioni che Hillman e Shamdasani concordano nell’individuare nell’«aprirsi ai morti ed al personale profondo» la chiave di volta di una ricerca di senso per l’oggi. Una ricerca che deve partire anche dall’accettazione, per usare sempre le parole di Hillman nella stessa parte del libro, «… che nella mia interezza ci sia qualcosa di più che non solo me stesso. E quel qualcosa di più è il Sé» (Ibidem).

Si tocca qui un aspetto cruciale che forse può aiutarci a comprendere al meglio il rapporto fra l’immaginazione come intesa da Jung ed Hillman e la nonviolenza come incarnata da Gandhi. Il punto è quello della prevalenza del valore esperienziale. Hillman si interroga infatti se la psicologia più che una pratica di comprensione non sia invece una “via”, «una via per udire, una via per rispondere, una via per avvertire la presenza degli Dei nel mondo […] accettare il mondo anziché comprenderlo» (ivi, p. 172). È un punto che evoca il nocciolo dell’azione nonviolenta del Mahatma. Punto che emerge soprattutto grazie al lavoro di Erik Erikson. È lui che ha coniato il termine «verità nell’azione» nel suo citato saggio, per definire il senso della nonviolenza per Gandhi. È un significato esperienziale, che si può esprimere – e dargli vita – solo attraverso la sua pratica. Da qui, d’altra parte, il famoso motto, fin troppo banalizzato, di Gandhi «la mia vita è il mio messaggio». Un approccio che risuona del concretismo del suo pensiero. È una sua costante nei suoi scritti, lettere o dialoghi, considerare gli elementi immaginifici delle tradizioni indiane – Dei, personaggi mitologici ecc. – fattori psichici vivi. Essi sono un invito a sperimentare in se stessi quelle qualità. È noto che Gandhi leggeva in particolare due volte al giorno le quartine del poema filosofico Baghavadgita in cui il Dio Krishna insegna a dominare le pulsioni negative dell’animo. È in questo intrecciarsi di elementi vivi, esperienziali, che si può cogliere un ulteriore punto di contatto con Jung.

Proprio nella parte finale de Il Lamento dei Morti, viene posto l’accento sul tentativo che Jung fa con il Libro Rosso di recuperare l’autenticità dell’esperienza (ivi, p. 186). Nel suo caso, e per il suo tempo, ciò significava nelle nostre vite di occidentali, soprattutto nel senso di rapporto con la cristianità e con la necessità di rilanciarla. Ma a quasi un secolo di distanza, ciò che Jung ha messo a nudo della sua anima appare ancora più denso di significato oggi, nel nostro mondo globalizzato. E va sottolineato che oggi grazie alle nuove tecnologie il mondo si sta globalizzano in una maniera che non solo non era immaginabile un secolo fa, ma neanche quindici anni fa, giacché quella di Internet è davvero una rivoluzione incredibile, storica, che sta ridisegnando le mappe della cultura e dell’interagire umani.

È per tale ragione che ritengo che guardare ai punti di contatto fra il fattore esperienziale in Jung – la sofferenza come conoscenza nel simbolismo del verme – e la prassi etica di Gandhi – nonviolenza come verità nell’azione – sia di grande importanza per l’oggi. Essi ci parlano, come dicevo nell’introduzione, un linguaggio che tocca sensibilità universali. Sensibilità che presuppongono un legame indissolubile fra interiorità ed esteriorità. Una porosità che lungi dal voler essere una nuova forma di controllo delle coscienze, di prevalenza dell’irrazionalità sul percorso umano, vuole significare invece la necessità di coniugare il progresso anche con nuove forme di collegamento fra individui che parlino attraverso la via dell’intuizione, del sentimento, della compassione.

In fondo, se il processo di individuazione elaborato da Jung parla di una capacità di integrarsi nel sociale, e se la nonviolenza, grazie alla metamorfosi impressale da Gandhi, mira esattamente alla stessa cosa, entrambe sembrano disegnare un’idea di rapporto individuo-mondo non più limitata ad una specifica cultura o paese o collettività, ma piuttosto ad una capacità di aprirsi degli individui altrettanto globale della globalizzazione che le nuove tecnologie stanno imprimendo al nostro pianeta. Forse l’individuazione dovrebbe portare all’acquisizione di un atteggiamento che si potrebbe definire come una predisposizione ad una apertura universale dell’anima in linea con le esigenze di unitarietà del genere umano. Già nella conclusione del mio Karma Aperto (Petri F. 2012) avevo sottolineato come non a caso alcuni filosofi, quali l’iraniano Ramin Jahanbegloo, nell’esaminare le nuove sfide globali parlano, come nuove possibili incarnazioni contemporanee della  nonviolenza, di abbattere “l’egoismo culturale”.

Conclusioni

Vi è un fermento di idee che si sta sviluppando nel contesto del dialogo interculturale contemporaneo che guarda ai possibili punti di contatto fra il pensiero occidentale e quello orientale per affrontare la complessità crescente del nostro mondo. Da ultimo3 il filoso italiano Sebastiano Maffettone ha avviato assieme a suoi colleghi indiani, una riflessione sui possibili forme di ibridazione fra la tradizione liberal-costituzionale occidentale e le tradizioni di pensiero orientali. Il campo maggior interesse, quello più fertile,  sembra essere quello di mutuare proprio dall’esperienza di Gandhi una visione più ampia di democrazia, in cui si miri anche a rafforzare l’interiorità individuale. Sotto questo profilo la nonviolenza, nella sua espressione di apertura sistematica al dialogo ed in ultima analisi di massimo utilizzo della ragione umana, si presenta come uno strumento dalle notevoli potenzialità. Essa chiama in causa ciò che – come ricorda Maffettone – pensatori occidentali come Foucault chiamano «pratiche del sé».

Come ho già osservato, sia l’approccio alla nonviolenza di Gandhi, che la visione psicodinamica di Jung sono debitori di una stessa fonte di umiltà e relativizzazione. Se ciò è in linea con le tradizioni spirituali dell’oriente e dell’India in particolare, cui Gandhi in ultima analisi si ispira, ciò é anche uno dei punti di maggiore forza del pensiero junghiano. Come sottolinea Hillman nel Lamento dei Morti «L’affermazione della vita non avviene alla cieca, significa restringere il poco che si ha, gli errori inevitabili […] [esperienza] umiliante […] L’Io viene ridimensionato e Jung si rende conto dell’ampiezza della vita» (ivi, p. 176).

Sicuramente ciò non può avvenire senza sofferenza, senza un continuo lavoro su se stessi, senza una apertura al mondo che passi inevitabilmente per una apertura ed una accettazione dell’alterità interore. In fondo quando si dice che la psicologia junghiana ci parla di una forma di “democrazia interore” ciò coglie nel segno. Se è indubbiamente complesso valutare la portata in termini sociali del legame fra interiorità ed esteriorità, è una riflessione che oggi sembra ancor più necessaria che non ai tempi del Mahatma. Jung aveva abbozzato una simile riflessione nel suo Saggio per l’Unesco scritto nel 1948 – proprio l’anno dell’assassinio di Gandhi – Tecniche di trasformazione dell’atteggiamento mentale in vista della pace nel mondo (Jung C.G. 1948). Un mondo in cui sia Jung che il Mahatma hanno portato un contributo di apertura e tolleranza che non potrebbe essere compreso appieno senza tenere in debito conto anche il considerevole approccio interculturale che ha contraddistinto il percorso di entrambi. Anche per questo ritengo che per elaborare risposte il più possibile condivise alle sfide della globalizzazione si debba comprendere quanto la strada della nonviolenza intrecci nella sua connotazione esperienziale la necessaria relativizzazione interiore con l’altrettanto necessaria relativizzazione esteriore.


Note

  • 1 Si veda Petri F. (2014), Gandhi, Jung and nonviolence today, in India International Center Quarterly, August 2014.
  • 2  In Gandhi M.K. (1973) Teoria e pratica della non-violenza, Einaudi, pp. 56-57.
  • 3 Maffettone S., in  Supplemento Domenicale de Il Sole 24 Ore del 18 gennaio 2015.

 


Bibliografia

  • Erikson E. (2013), La Verità di Gandhi, Castelvecchi, Roma.
  • Gandhi M.K. (1927), An Autobiography or The story of My Experiment with Truth, Navajivan Trust, Ahmedabad.
  • Gandhi M.K. (1973), Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino.
  • Hillman J., Shamdasani S. (2014), Il Lamento dei Morti, Bollati Boringhieri, Torino.Jung C.G. (1945), Dopo la catastrofe, in “Opere” vol. 10**, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
  • Jung C.G. (1928-30), Analisi dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino 2006.
  • Jung C.G. (1913-1930), Il Libro Rosso, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
  • Panikkar R. (2009), Pluralismo e Interculturalità, Jaca Book, Milano.
  • Petri F. (2012), Karma Aperto, Moretti & Vitali, Bergamo.
  • Petri F. (2014), Dharma Aperto, Moretti & Vitali, Bergamo.
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