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“Fare anima” del Mondo

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

Invito alla Lettura

2015 Numero 4 Invito alla Lettura

A CURA DI FRANCESCO DI NUOVO E ROBERTO MANCIOCCHI La rubrica Invito alla lettura propone indicazioni in merito ai contributi più attuali e significativi della psicoterapia con uno sguardo attento agli attuali sviluppi del pensiero teorico; sarà ovviamente presente una forma di dialogo con la letteratura, la filosofia, le neuroscienze e le arti. La rubrica sarà, a seconda dei numeri, completata da una sezione di recensioni, nella quale alcuni psicoterapeuti commenteranno le più interessanti novità del panorama italiano e internazionale.

“Fare anima” del Mondo

Commento a Riccardo Mondo Nei luoghi del fare anima. Dimensione immaginale del processo terapeutico
Magi Edizioni, 2012

Il libro di cui mi appresto a discutere[1] Nei luoghi del fare anima. Dimensione immaginale del processo terapeutico di Riccardo Mondo ci fa ben comprendere il forte legame dell’autore con Hillman. Tale nesso è evidente sin dal titolo e sottotitolo. Infatti – com’è noto e da lui espressamente spiegato in Saggi sul Puer – Hillman aveva assunto come formula di sintesi della sua psicologia archetipica un passaggio di una lettera del 1818 del poeta Keats: «Chiamate, vi prego, il mondo ‘la valle del fare anima’. Allora scoprirete a che serve il mondo». L’eco di ciò si fa sentire in Mondo sin dal titolo del suo libro. Ma si sente pure nel sottotitolo, dal momento che la psicologia archetipica non concerne tanto l’ ‘interpretazione’ dei sogni (che, in forma più spirituale che in Freud, permaneva pure in Jung), quanto nel libero immaginare sui sogni stessi, specie da parte del sognatore: un ‘libero immaginare’ pregno della consapevolezza del fatto che non ne potremo mai venire totalmente a capo poiché non comprenderemo mai compiutamente il vero ‘sceneggiatore’ dei sogni stessi: l’archetipo, o la costellazione archetipica (inconscia per definizione), che li proietta nel nostro immaginario profondo, ossia nella nostra vita onirica. Per tal via la dimensione archetipica interagisce col nostro vissuto tramite simboli ‘divini’ e miti interiori. Non ne verremo mai del tutto a capo, ma potremo però – se così posso dire – tenerli al caldo, e indurre il paziente a tenerli al caldo; e per ciò – affinché restino vivi e ci vivifichino – potremo ‘svilupparli’ con la nostra immaginazione, specie in analisi, arricchendo la nostra propria vita come ‘sognatori’.

Quello di Mondo è un libro facile all’apparenza, ma complesso e profondo nella sostanza. Siccome le unità che compongono il libro sono – considerate una ad una – semplici, solo vedendole tutte insieme, alla fine ci comunicano tutto il loro senso intrinseco.

Il punto forte di Mondo, che è un fine intellettuale di vaste e meditate letture che si lasciano benissimo cogliere nel suo libro, è l’approccio sperimentale. Si nota, insomma, che c’è, dietro al libro, una grande ricchezza analitica ‘vera’, fatta di anni e anni di colloqui innumerevoli con i pazienti. Sia nella parte sui metodi che in quella sui ‘casi’, entrambe ricche – tutto ruota, qui, intorno alla teoria junghiano-hillmaniana. I casi sono presentati un po’ di scorcio, il che da un lato fa talora rimpiangere una trattazione più ampia laddove uno ‘si ritrovi’ di più (nell’uno od altro ‘caso’ trattato); dall’altro risulta molto efficace per la galleria di tipi che mette in mostra, in termini di comunicazione, direi quasi didattica, nulla concedendo alle divagazioni. Nell’insieme Mondo riesce a darci una visione ‘sperimentale’ della psicologia archetipica: il che forse non è il punto forte della tendenza in questione (che spesso è più ‘filosofica’ che terapeutica), il che in tale contesto è, proprio per questo, tanto più apprezzabile.

Vorrei provare a unire il momento teorico e clinico come sono trattati da Mondo. In primo luogo viene confermata la relazione tra inconscio collettivo e coscienza. Su ciò i risvolti possono essere tragici, nel mito archetipico come nel vissuto delle persone considerate. Penso ad esempio ad alcune annotazioni di segno archetipico su Le Baccanti di Euripide (406 a.C.), il grande autore che ci ha dato una tragedia incentrata su Dioniso. Ora, si sa che Dioniso, o Bacco, è il dio dell’ebbrezza, o della cieca vitalità scatenata, ossia della volontà di vivere infinita presa allo stato puro, alias intesa come ‘l’essere’, in greco òn (ossia vista ‘ontologicamente’). Perciò spesso Dioniso è stato considerato ‘il dio pazzo’, espressione di irrazionalità infinita scatenata, ad esempio dallo psicoanalista libertario N.O. Brown (1967). Ma la follia – spiega bene Mondo usando Le Baccanti come esempio – si manifesta non a partire dalla sacralizzazione degli istinti vitalistici (alias dell’inconscio collettivo), ma in seguito al conflitto mortale con tale dimensione da parte di una coscienza tirannica. Tale Io sopraffatorio nella tragedia, com’è ben noto, è rappresentato dal tiranno contrario al dio, Penteo. Con l’inconscio istintuale, con l’Ombra, ci dice lì e altrove Mondo, si deve necessariamente scendere a patti; se si pretende di trattare l’inconscio, ossia la pulsione (o la pulsione divinizzata, cioè ‘Dioniso’), da ‘gran nemico’, ritenuto da irreggimentare con le buone e con le cattive maniere, l’inconscio romperà le chiuse della coscienza e la sommergerà, talora facendola impazzire (pp. 60-62). La follia non è insomma la causa, ma l’effetto della psiche scissa, spaccata in due come un melone invece che unita come una sfera.

Talora però la relazione devastante non viene dal nostro inconscio, o dalla nostra coscienza verso l’inconscio, ma da un inconscio a noi più contiguo, familiare, come qui capita alla paziente chiamata ‘Irene’, vittima di una madre posseduta dall’archetipo della Madre terribile o distruttiva, «una femmina primitiva centrata sulla propria vita pulsionale, incapace di favorire l’evoluzione dei propri figli verso l’autonomia» (pp. 77-80). Questo è un po’ il caso che Hillman chiamava della «cattiva ghianda», che invece di voler diventare una bella quercia tende alla distruttività: nel testo specifico di Hillman tende alla distruzione di sé (Hillman J. 1996), e, qui, della figlia: «L’immagine è arcaica, presenta una femmina primitiva centrata sulla propria vita pulsionale, incapace di favorire l’evoluzione dei propri figli verso l’autonomia. Un proverbio siciliano recita: ‘u malu alvuru sa risucca i frutti. Dall’albero malefico ogni frutto maturo non si stacca, viene risucchiato dalla pianta che se ne nutre» (p. 79).

Ma la situazione analitica più tipica è naturalmente quella che ha a che fare con l’archetipo dell’Ombra, il nostro lato oscuro – quale esso sia per ciascuno di noi – che compare per primo, in ciascuno, come il Negativo inconscio suo proprio, archetipico, della sua libido, che lo attrae come il male suo proprio e, al tempo stesso, lo minaccia. Qui la cosa è molto interessante in riferimento a ‘Lisa’, la ‘raffinata single’, vissuta in modo libertario, madre mai sposata e donna emancipata, che a un certo punto vorrebbe mutare radicalmente la propria vocazione-destino negandosi, ma che Mondo rifiuta di aiutare in questo processo di autonegazione, proprio in quanto «per sottrarsi alla dominanza della nostra ombra psichica dobbiamo riconoscerne la potenza e giungere a un patteggiamento. Si giunge così all’assunzione del senso tragico dell’esistere. Il tragico come categoria ontologica, si esprime come contrasto tra volontà e destino, tra libertà e necessità; è questo il conflitto maggiore, quello che opprime ognuno di noi» (p. 101).

La questione della sintesi delle due parti speculari della personalità pone, naturalmente, un problema vuoi relativo al rapporto tra l’inconscio e la coscienza, vuoi sul senso stesso della cura analitica. L’impostazione caldeggiata, come in tutto lo junghismo, vede l’inconscio non già come area da colonizzare mediante la coscienza, ponendo essa laddove c’era stato inconscio, come diceva Freud in L’Interpretazione dei sogni (1899), bensì come dimensione reale in sé e per sé: e non come mero, o anche semplicemente prevalente, frutto del rimosso. Si tratta di un inconscio con cui interloquire senza l’illusione – che oltre a tutto potrebbe avere conseguenze devastanti per la psiche – di poterlo sottomettere. L’inconscio diventa fonte di grave disagio psichico se in noi esso sia ‘umiliato e offeso’, invece che ascoltato a partire dal suo essere vero, ossia dall’abissalità dei suoi archetipi; ossia, come dice Hillman, «l’anima è costretta ad ammalarsi sempre di nuovo, finché non ha ottenuto ciò che vuole» (1989, p. 55). Il disagio dell’anima notoriamente si esprime pure con vistosi risvolti fisici, come tic o forse certi mal di testa troppo ricorrenti, detti ‘sintomi’, che somatizzano il radicale male di vivere (ivi, pp. 53-55). Si tratta dunque di far pace tra coscienza e inconscio, innanzitutto. Ma siccome le due parti da conciliare, o anche sintetizzare, resteranno due – non foss’altro che per l’abissalità in sé e per sé degli archetipi, che sono del tutto inconsci nella loro essenza; e siccome intorno agli archetipi che urgono proprio in noi ruota la nostra vita psichica, l’analisi stessa sarà ‘idealmente’ interminabile. In tal caso come già in Freud. Essa terminerà, in senso relativo, quando smetterà di essere sentita come necessaria. Ci si può allora interrogare sul senso della cura, se idealmente potrebbe non finire mai: un senso qui individuato non tanto nel guarire quanto nel ‘prendersi cura’ di se stessi (e riceverla); e, inoltre, nell’accompagnare (o essere accompagnati) lungo un processo di trasformazione di sé imprescindibile. Su ciò Mondo fa un’osservazione molto toccante: «Mi dà soprattutto la speranza d’essere utile, osservando lo sguardo altrui illuminarsi, il dolore allentare la morsa, divenendo sopportabile, mentre avverto che nella nostra relazione qualcosa di indicibile è accaduto.» (p. 37)

Pure interessanti sono diversi dettagli o consigli di tecnica analitica, quali: la necessità di un atteggiamento di ascolto partecipativo, ma non invasivo; l’importanza di non forzare il paziente ad andare ‘al sodo’ anche se il punto chiave sia già stato intuito da chi analizzi, perché ci si deve adeguare ai tempi di maturazione del paziente, ossia alla necessità di rispettare l’istanza della ‘complicatio’; e, soprattutto, la necessità di evitare assolutamente di egemonizzare – coscientemente o meno – l’anima del prossimo, in fondo plagiandola. Su quest’ultimo punto Riccardo Mondo fa un’osservazione legata al suo amore per il romanzo mitologico inventato da Tolkien Il signore degli anelli (1955) a proposito del potente mago ‘buono’ Gandar, che non vuole tenere lui stesso l’anello del potere universale, di cui teme l’attrazione demoniaca, ma lo lascia al piccolo onesto hobbit Frodo. L’hobbit, l’ometto fragile ma risoluto, protagonista della storia, non è dunque il Mago – pur ‘buono’ –, che nella metafora di Mondo è lo psicoterapeuta analitico, ma il paziente stesso (p. 109).

Tra i casi esemplari trattati da Mondo quello più emblematico pare a me quello di ‘Clara’, la raffinata signora intellettuale che si è chiusa agli altri come in una fortezza e che ad un certo punto in sogno vede una fotografia giovanile che si anima sicché lei e tutti gli amici s’immergono in acque chiare (p. 133), e allora lei prende a parlare liberamente, finalmente non più dominata dalla corazza impersonale (di ruolo). Qui c’è un gruppo di pagine che varrebbe la pena di commentare parola per parola, anche in sede di didattica analitica (pp. 133-135).

Pure molto interessante è l’annotazione finale sulle resistenze all’analisi provenienti dall’esterno, da parenti che si sentono minacciati sia dal rapporto ‘segreto’ tra analizzato (o analizzata) ed analista, e sia dal diventare in-dividuus del loro caro (o cara), in precedenza tristemente a disagio ma succube. «Non di rado –nota su ciò Mondo– le persone che giungono alla psicoterapia sono, rispetto ad altri soggetti del gruppo familiare, quelli che presentano un maggiore stimolo alla trasformazione di stantie abitudini. Questo può nei fatti rappresentare un rischio; essendo la psicoterapia un potente acceleratore di crescita psichica» (p. 139). E ancora: «Il processo d’individuazione prima o poi solleverà lo scontro con le parti psichiche, melmose e insabbianti, del gruppo di appartenenza: l’individuo irrisolto è maggiormente manipolabile e quindi più aderente a soddisfare i bisogni del gruppo. Questa educazione all’individualità non deve essere confusa con un narcisistico individualismo, ma si esplicita nella terapia con una costante ricerca dialettica tra esigenze personali e collettive. Il ‘divieni te stesso’, caratteristico del processo individuativo, teorizzato da C. G. Jung, non esclude ma include il mondo» (p. 140).

Dall’insieme esce confermata l’idea della trasformazione psichica, anzi della ‘autotrasformazione’ psichica come significato e fine dell’analisi, intesa come potente stimolo a diventare quello che nel profondo dell’anima si sia. E ciò spiega poi perché questa ‘arte’ analitica, così discussa e anche discutibile, dopo che è stata scoperta pur essendo stata tante volte criticata sia sempre risorta dalle sue ceneri.


Note

  • [1] Questo testo è ricavato dagli appunti per la presentazione del libro di Riccardo Mondo, Nei luoghi del fare anima. Dimensione immaginale del processo terapeutico, Magi, Roma 2012. La presentazione si è svolta a Roma presso il Centro Italiano di Psicologia Analitica in data 11 ottobre 2013.

Bibliografia

  • Brown N.O. (1967), Corpo d’amore, SE, Milano 1991.
  • Euripide (406 a.C.), Le Baccanti, in «Tragici greci», a cura di R. Cantarella, Mondadori, Milano 1992.
  • Freud S. (1899), L’interpretazione dei sogni, in «Opere», I, Bollati Boringhieri, Torino, 1966.
  • Hillman J. (1975), Saggi sul puer , Raffaello Cortina Editore, Milano 1988.
  • Hillman J. (1989), Fuochi blu, Adelphi, Milano1996.
  • Hillman J. (1996), Il codice dell’anima, Adelphi, Milano 1997.
  • Mondo R. (2012), Nei luoghi del fare anima. Dimensione immaginale del processo terapeutico, Magi, Roma 2012.
  • Tolkien J.R.R. (1955), Il signore degli anelli, Rusconi, Milano 1970.

 

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