
2013 Numero 2
Breve introduzione all’Immaginazione Attiva
Nota introduttiva*
In questa conferenza ho scelto, essendo la serata dedicata all’introduzione ad un workshop clinico, di rispondere alle domande che più frequentemente mi sono state rivolte nel corso delle lezioni o in occasioni di conferenze, invece di strutturare l’intervento affrontando l’argomento solo da un punto di vista teorico.
D: Che cosa si intende per immagine attiva?
Annemarie Kroke ha parlato di immagine che si attiva quando raggiunge una energia sufficiente. Da parte mia vorrei porre l’attenzione su ciò che possiamo chiamare il lavoro dell’attivazione dell’immagine in analogia al lavoro onirico, proprio per sottolineare le modalità attraverso le quali l’immagine acquisendo spazialità e temporalità prende forma, e si trasforma in una rappresentazione dotata di senso ed in un secondo tempo in una narrazione.
Spesso s’inizia un lavoro d’immaginazione attiva da una immagine chiusa, oscura e incomprensibile a colui che la ha accolta, dalla quale è stato invaso. Da simbolo chiuso e maligno come diceva Gaetano Benedetti,
(Benedetti G.,1991)l’immagine comincia a dipanarsi attraverso un lavoro di proiezioni, di spazializzazioni e di dinamicità verso una apertura di senso che viene tenuta viva dal terapeuta.
Il racconto non si avvale di un percorso in discesa con l’uso-scorciatoia di simboli fissi. Ma è percorso accidentato, pieno di blocchi e di successivi tentativi di sviarli. Materiale analitico che, come più volte Jung ha sottolineato, va valorizzato, analizzato e reso oggetto di chiarificazione e /o di amplificazione.
Questi appassionati ricercatori della psiche, che sono stati Benedetti e Jung, colpiti dall’osservazione, nella esperienza clinica di immagini complessuali che emergevano nelle patologie gravi, hanno descritto il sorgere e il dipanarsi delle immagini, senza soffermarsi ad approfondire la dimensione più specificamente ermeneutica. Per Jung è sufficiente osservare l’immagine perché questa si attivi.
<<Di solito – dice Jung – essa si trasforma, perchè il semplice fatto di averla presa in considerazione è sufficiente ad animarla>> (Jung C.G. 1955/1956) Gli fa eco Hillman (Hillman J. 1978 p.152)che usa la metafora del lasciare sedimentare le immagini come il buon vino. Ma il sedimentare rimanda ad una dimensione temporale, elemento centrale in quel complesso di emozione, rappresentazione, sensorialità, processualità di cui è fatta una immagine che inizia il suo processo di attivazione, o che sia già di per sé, attiva.
E’ il tempo e il racconto nella sua narrazione passata e futura che coglie l’emozione nascosta nell’immagine. Senza il racconto non si riuscirebbe a manifestare nemmeno le più semplici proprietà di un’immagine che resterebbe virtuale. Un esempio banale; il tratto di fragilità di una caraffa non si attualizza che attraverso una trasformazione narrativa. quando cioè la lasciamo cadere e che si rompe; o quando, all’inverso, non si rompe quando la lasciamo cadere.
Un bell’esempio di rapporto creativo tra emozione, temporalità e narrazione ci viene dal campo artistico. Nelle videoinstallazioni di Bill Viola si procede traducendo scene di dipinti famosi attraverso una temporalità sospesa e senza storia, in un ritmo spesso lentissimo, volutamente inadeguato, in rivolta contro il cosiddetto tempo reale.
Viola ha più volte affermato di volere entrare nelle immagini per tirarne fuori le emozioni. E’ interessante come una immagine possa iniziare un percorso attivante, dinamico, trasformativo o entrando in una narrazione o destoricizzandosi. E’ il percorso inverso, una sorta di narrazione rallentata, l’espediente che tiene viva l’immagine su cui Viola lavora, trasformando e cercando l’elemento non traducibile, l’eccedenza di senso. Attraverso questo ritmo lentissimo, irreale, inadeguato, l’immagine ci parla da un fondo intensamente emozionale.
I due procedimenti procedono comunque in funzione di un particolare uso della dimensione temporale e di conseguenza spaziale.
D: E’ pericolosa l’immaginazione attiva in pazienti gravi (border o psicotici)? L’immaginazione attiva può trasformarsi in un pensiero delirante?
La difficoltà che si osserva nel paziente grave nella pratica della immaginazione attiva in seduta, non è riferibile (come spesso si crede) alla pericolosità, intendendo con questa un perdersi in un’immagine troppo carica, ma nell’incapacità di dare continuità al lavoro di attivazione dell’immagine stessa.
L’immaginante come l’artista o lo psicotico è impegnato in una impresa conoscitiva. Il “come la persona si costruisce il suo mondo” è la questione centrale, sia per lo stile (il come) che per il “si”, e cioè come questo mondo autogenerato si rende consapevole al soggetto. L’arte, la follia, l’immaginazione sono in questo senso strumenti simili rispetto alla conoscenza del mondo sensibile.
Alcuni immaginano che il paziente che presenta tratti border o lo schizofrenico, sia privo della facoltà d’individuazione, al contrario, Binswanger, Jung e più recentemente Kimura (Kimura Bin 1992), sottolineano come quello che osserviamo nella pratica psichiatrica debba essere visto come uno sforzo di individuazione. E’ l’eccesso e non la mancanza di questo essere tesi verso la ricerca di un sé, che talvolta genera patologia.
Condividono, il delirante, l’artista, l’immaginante, lo sforzo di creare una forma, e procedono attraverso l’opera conoscitiva a creare una funzione di assestamento tra io parziali e io normale direbbe Jung, e in genere tesi che molti condividono, di riequilibrio dell’Io. Sforzo tensionale che non implica che la forma creata sia necessariamente arte, così come il personificare e il mettere in dialogo i complessi, sia sinonimo di superamento e guarigione.
Dobbiamo quindi fare questa prima distinzione: la costruzione del mondo immaginario non ri-crea una realtà parallela, (come nel mondo del delirante) ma dischiude nel suo farsi ciò che non è o non è ancora visibile. La questione riguarda la costituzione di quello che la psichiatria fenomenologica chiama “mondo ambiente.”
Distinguerei la modalità che l’immaginante fa propria dell’allucinare dove per alcuni autori (Resnik S. 1986), l’allucinare è creare una drammatizzazione sensoriale, dalla creazione di un mondo delirante. Quando si descrivono i due mondi alterni dell’immaginazione attiva si può parlare di mondo reale interno e esterno dialogante e condiviso a differenza del mondo dell’allucinato il quale vive in un mondo normale e in un mondo patologico. Intendendo con patologico mondo non condiviso e desocializzato. (Blankenburg W.,1998)
Nella narrazione immaginale dello psicotico non si riesce a creare un mondo condiviso e quindi la continuità del racconto prima o poi si interrompe. La capacità di riconoscere questo mondo autogenerato come alterità da osservare, da vivere o da condividere, subisce una contrazione o un inaridimento sino alla incapacità di creare nuove immagini.
Tutto il tentativo che l’analista fa nel corso della immaginazione è, non a caso, proprio il porre attenzione al contesto (corpo sensoriale e rapporti con il mondo circostante).
E’ un procedere da uno spazio di solitudine, fermo e emozionalmente vuoto, verso le atmosfere calde e coinvolgenti o fredde e terrifiche, ma sempre condivisibili, dello spazio vissuto. Minkowsky (Minkowsky E., 1968 p.380)parla di un “sentiment d’aisance” che ognuno di noi ha nei confronti dell’ambiente e che viene a perdere il delirante. E’ questo “sentiment d’aisance”, (legato per esempio alla distanza vissuta nel caso della persecutorietà, o al tempo vissuto nel caso della melanconia) che il terapeuta invita con delicatezza a tenere vivo nel corso della immaginazione attiva, nella convinzione che sia il contenitore più efficace per lo sviluppo e la continuità del processo immaginario.
Se prendiamo ad esempio un’immaginazione di un paziente con tratti persecutori, osserviamo come si venga ad attuare attraverso le immagini che si formano e che vengono condivise, una forte contrattura in termini spaziali. Anche se il percorso che conduce simili pazienti alla condivisione delle immagini, sia con se stesso che con l’altro da sé risulta essere molto faticoso a causa della diffidenza e sospettosità insita nella patologia, si evidenzia chiaramente nella descrizione dello spazio immaginato, una conglomerazione e un restringimento della fase viva del divenire ambiente, tutta polarizzata e diretta contro il me.
A questo riguardo riporto le riflessioni di Martini (Martini G., 2005) in quanto, anche se non si riferiscono all’immaginazione attiva, esprimono compiutamente il percorso terapeutico a partire da una sensazione, o da una atmosfera delirante o da un’immagine, molto vicini a ciò che sto tentando di descrivere.
Per Martini una sensazione di persecutorietà deve essere prima ricontattata come sensazione, per poi essere deviata dalla sua evoluzione in delirio e convogliata in un contesto dove possa coesistere con altre emozioni ed essere mitigata dall’incontro con l’altro da sé.
Ma ancora più interessante per il nostro discorso su l’attivazione e la narrazione delle immagini è la differenza che Martini fa, mutuandola da Ricoeur (intraducibile di arrivo e di partenza), con la collocazione del soggetto psicotico (e non solo aggiungerei) tra un irrapresentabile di partenza e un irrapresentabile di arrivo.
L’irrappresentabile di partenza si pone, per ogni essere umano, sotto il segno dell’angoscia di marca esistenziale (il nulla Heideggeriano o l’angoscia contiguo autistica di Ogden) che trova nella rappresentazione un possibile lenimento. Questo non è possibile per lo psicotico, sia perché è totalmente identificato nell’angoscia, sia perchè non riesce ad incanalarla nella rappresentazione se non nel delirio.
L’irrapresentabile di arrivo è nel normale narrazione aperta o debole e opera in uno spazio ludico e simbolico (lo spazio del “come se”) e coincide con il lavoro di attivazione e trasformazione delle immagini. Nello psicotico lo spazio di gioco si chiude velocemente, nel tentativo, che spesso risulta fallimentare, di contenere l’angoscia.
D: quale è il senso terapeutico dell’immaginare attivamente?
L’immaginazione non cura per ciò che disvela, ma per quanto attiva, abbiamo detto. Di conseguenza tutto l’accento terapeutico non va verso la fase interpretativa del rapporto analitico, ma in quella dell’ascolto.
Oggi, proseguendo il discorso aperto da Annemarie Kroke possiamo osservare e descrivere, tra le altre, almeno tre modalità della mente dell’immaginante che vanno accompagnate in e da un ascolto partecipe, caratterizzato da attenzione ed umiltà. Una prima modalità che va ad attivare ed aprire un campo emotivo-sensoriale e che attiene alla dimensione poetico-creativa, una seconda che porta avanti una narrazione che non segue necessariamente schemi logico-narrativi ed una terza che agisce come attivazione del campo.
L’immaginazione, in quello che ho definito lavoro dell’attivazione, crea, ipotizza e trasforma con almeno tre strumenti; le sinestesie, il come se, e il noi.
1 – Le sinestesie e le fantasie creative
Come aveva da tempo scoperto e magistralmente raccontato nelle sue Correspondences Baudelaire, uno dei mezzi che usa il poeta sono le sinestesie. Sinestesie come sensazioni secondarie che si attivano in conseguenza della stimolazione di un registro sensoriale primario.
L’esempio classico è quello di una percezione visiva in concomitanza di una sensazione acustica,”audizione colorata” nella musica. Nella mia esperienza clinica le sinestesie sono spesso presenti nelle descrizioni corporee. Talora lo stimolo è attuale, talora basta rievocarlo nella mente. Il fenomeno è più accentuato in condizioni particolari, nell’infanzia, sotto l’effetto di droghe, in stati di meditazione. Non dobbiamo confonderlo con una semplice associazione (vedere un fiore e immaginarne il profumo)
Originariamente considerato un attributo di stati confusionali o regressivi, dall’800 in poi e soprattutto oggi con gli studi delle neuroscienze, ma soprattutto in campo letterario, poetico e artistico in genere, il fenomeno è considerato come fonte di creatività e di comunicazione interpersonale e intrapsichica Strettamente connesso a quello delle sinestesie, ma non sovrapponibile è il concetto di percezioni o rappresentazioni amodali di cui trattano le scienze cognitive, fenomeno che sarebbe utile osservare il da un vertice precipuamente analitico.
Noi possiamo percepire e immaginare la realtà, solo grazie a queste connessioni e consonanze che si dispiegano intorno a noi coinvolgendoci, dimodoché nel nostro cervello si forma un’immagine che nasce da un intreccio tale per cui nell’udito vediamo il profilo di una forma o di una situazione e negli occhi ne ascoltiamo il suono specifico. Baudelaire, Wagner, Rilke, Proust, e nel nostro campo, Fachinelli, (Fachinelli E., 1989) con la sua definizione di mente come mente delle corrispondenze o delle estasi, contribuiscono a una nuova visione dell’uomo.
L’immaginazione è creatrice proprio perché nasce dalla “corrispondenza”(Lisciani-Petrini E., 2007) fra le sinestesie, rappresentate dalle sensazioni correlate fra di loro, e la realtà. Quando cioè si realizza la corrispondenza, l’immagine è percettivamente inseparabile dal corpo proprio. Questo concetto di sinestesia, è in qualche modo analogo, ci fa notare Bellotti (Bellotti F., 2011) alla “contemporaneità” di cui parla Jung, la quale lega l’esperienza sensibile, sulla quale si costituiscono i nessi associativi che permettono di costruire nuove unità di senso, e l’espressione simbolica data dall’unificazione in un intero.
2 – Il come se e la narrazione emotiva
Nell’immaginazione attiva in presenza del terapeuta operiamo non solo attraverso un lavoro di apertura emotiva delle immagini, ma insieme accompagnando l’immaginante nella costruzione spazio temporale di una sua storia narrativa.
Se confrontiamo le immagini attive con le immagini del sogno, ci accorgiamo che sono caratterizzate da una diversa temporalità. Le immagini oniriche sono dipendenti dal loro essere immerse in una coscienza senza tempo. Questo comporta un diverso uso dei residui diurni, sia da parte dell’Io narrante sia da parte dell’io – diciamo così – osservante.
Zambrano(Zambrano M., 2006) ci fa notare come Freud si confronta con il residuo diurno, solo per utilizzarlo all’interno dell’interpretazione come mezzo per fare associazioni.
L’Io narrante dell’immaginante sembra montare la scena scegliendo come l’occhio di un regista, tra le varie opzioni alla sua portata, i particolari che andranno a costituire le scene, le atmosfere, i personaggi.
Il ruolo dell’analista che non ha come scopo una finalità associativa e interpretativa, ma piuttosto una conoscenza per immagini, osserva e si pone come un aiuto regista fornendo a volte informazioni, sottolineando mancanze o buchi logici presenti nella scena immaginaria.
In questo lavoro a due mani viene a costituirsi un testo, una co-narrazione per immagini, che si avvale di spazi e di tempi, di piani di lavoro successivi che conducono a un senso, uno stile, un progetto.
La metafora del teatro molto usata anche nel mondo junghiano con le parti di sé agenti nella scena, è uno scenario con molti attori, ma carente della funzione di regia che, nel lavoro di attivazione delle immagini, diventa lo scopo del lavoro terapeutico, in quanto è trasformazione verso la costituzione di un soggetto.
Il senso del sè o ipseità che, sia che si costituisca durante il percorso, sia che sia pre-esistente e che vada solo rafforzato, rimane elemento costitutivo della terapia junghiana, dove sicuramente si può dire che: “obiettivo della narrazione è pescare nell’irrapresentabile per farne emergere il soggetto”(Mc Dougall J.1996, p125).
3 – Come modalità di attivazione del campo
<<Immaginazione attiva è una (aggiungo io efficace e potente) modalità di animazione del campo che permette, pur non dimenticando mai l’asimmetria della relazione analitica, l’accesso immaginale ad un mondo di dialogo e di condivisione, dove il vivere e il condividere l’esperienza del processo per immagini trasmette, attraverso la sua concretezza emotivo-sensoriale, la sensazione e il coraggio di potere entrare insieme, analista e analizzando (anche se è solo per sfiorarlo) in contatto con quell’inesauribile luogo di pieni e di vuoti che Jung ha chiamato Ombra.>>(Schwartz-Salant N., 2002, p.149)
– Quando parliamo di lavoro di immaginazione attiva non possiamo eludere il fatto che in ogni produzione immaginaria vi è una modalità proiettiva. Ma la proiezione avviene solo nel momento in cui si costituisce un piano proiettivo che accoglie e raccoglie ciò che è stato proiettato. (Questo potrebbe essere il motivo per cui l’immaginazione attiva non in presenza di un terapeuta è più difficile).
La presenza dell’analista facilita un ambiente in cui il piano proiettivo diventa un momento di accoglienza ricettiva. In analogia con il lavoro onirico o con il lavoro allucinatorio (Botella C.e S. 2004; Jimenez G., 2001) permette di costituire e/o rafforzare un legame intrapsichico tra affetti e rappresentazione, e interpsichico tra terapeuta e paziente. Dopo che il campo è divenuto, attraverso le immagini condivise una realtà per entrambi, allora ciascuno arriva ad essere in modo paradossale, all’interno di questa serie d’ immagini, sia a esserne allo stesso tempo l’osservatore.
In questo modo il contenitore fa si’ che l’analista e l’analizzando diventino entrambi osservatori oggettivi e partecipi dell’affetto che è presente e animato, che facciano l’esperienza delle dinamiche di tali stati e che possano esplorare una schiera di materiale associativo che può essere stato stimolato e rappresentato.
Note
- * Questo articolo è una parziale rielaborazione di un intervento a voce fatto dall’autrice in occasione di un workshop sull’Immaginazione attiva che si è tenuto al CIPA nell’anno 2012-2013.
Bibliografia
- Benedetti G. (1991), Paziente e terapeuta nell’esperienza psicotica, Boringhieri, Torino 1991
- Bellotti F. (2011), L’immaginazione creatrice quale spazio di mediazione fra il senso proprio e la possibilità dell’essere altrimenti. in: Il nuovo. Forme di aperture all’ulteriore. Atti Convegno CIPA, XV, Vivarium, Milano 2011
- Blankenburg W. (1971), La perdita dell’evidenza naturale, Cortina, Milano 1998
- Botella C. e S. (2001), La raffigurabilità psichica, Borla, Roma 2004
- Fachinelli E., La mente estatica, Adelphi, Milano, 1989
- Mc Dougall J.(1996), I teatri del corpo, Cortina, Milano 1996
- Hillman J.(1978), Ricerche sull’Immagine, parte 1a, in Rivista.di Psiclogia analitica, 19/79
- Jimenez G.(2000),Clinica dell’allucinazione psicotica,Borla, Roma 2001
- Jung, C.G., (1955/1956) Mysterium Coniunctionis, Opere,vol. 14, Torino 1990
- Kimura B.(1992), Ecrits de psychopathologie phénomenologique, P.U.F, Paris 1992
- Lisciani-Petrini E. (2007), Risonanze, Mimesis, Milano 2007
- Martini G. (2005), La sfida dell’irrapresentabile, Franco Angeli, Milano 2005
- Martini G. (2011), La psicosi e la rappresentazone, Borla, Roma 2011
- Minkowski E.(1968),Le temps vécu, Delachaux & Nestlé, Neuchatel, trad.Il tempo vissuto, Einaudi,Torino 1971
- Resnik S. (1986), trad. L’esperienza psicotica, Boringhieri, Torino 1979
- Schwartz-Salant N.(1999),trad. La relazione, Vivarium, Milano 2002
- Zambrano M., Per abitare l’esilio, Scritti italiani, Le lettere, Firenze 2006
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