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Alcune riflessioni sui servizi di Salute Mentale e delle Dipendenze Patologiche. Essere psicoanalisti all’interno di un servizio psichiatrico, oggi

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

La follia: modelli della psiche e approcci terapeutici La psicologia analitica a 100 anni dalla nascita di Franco Basaglia

2024 Nuova Serie Numero 5 Monografia Franco Basaglia

Alcune riflessioni sui servizi di Salute Mentale e delle Dipendenze Patologiche. Essere psicoanalisti all’interno di un servizio psichiatrico, oggi

Il teatro della follia si chiude, il sipario cala.
Un grande momento per noi che a spingere questo risultato
abbiamo lottato anni della nostra vita.
[…] Il matto c’è, esiste.
Le cause, vi dico francamente: la scienza psichiatrica, in gran parte, è inesistente;
non sappiamo che cos’è la vita, figurarsi se possiamo sapere che cos’è la follia.
Basaglia (brevi frammenti, tratti da alcuni articoli di giornale dell’epoca, 1976)

Quando ho deciso di frequentare la clinica psichiatrica ero studentessa in medicina al quarto anno e aspettavo di poter cominciare il mio tirocinio presso la clinica psichiatrica dell’Università di Palermo. Il mio acerbo desiderio era quello di poter ascoltare i pazienti più fragili che nessuno ascoltava. Era il tempo della Psichiatria Democratica basagliana, l’approccio clinico era quello della lettura psicodinamica dei sintomi. Iniziava a farsi strada il concetto dell’approccio integrato e dell’équipe multidisciplinare, delle riunioni per la discussione dei casi clinici. Il mio entusiasmo veniva nutrito da questo nuovo movimento che faceva respirare un clima più innovativo e per certi versi rivoluzionario.

Questo è stato il momento in cui ho cominciato a conoscere anche Jung e la cultura junghiana. Erano gli anni ’90, gli echi di un cambiamento sociale ispiravano i più avvertiti e interessati alla psichiatria, quale scienza dell’uomo. Ma la psichiatria in ambito medico continuava a spingere verso una prassi conservativa attraverso lo sviluppo dei vari DSM con la ricerca delle più raffinate categorie diagnostiche volte all’oggettivizzazione della malattia mentale, in sintonia con il mandato sociale e gli eventi clinici che caratterizzavano gli psicotici e i pazienti più gravi che riconducevano verso l’agire e il controllo.

Fin dagli anni della specializzazione, ho vissuto un profondo contrasto tra le due spinte opposte che l’esperienza in reparto psichiatrico mi sollecitava, a volte lacerandomi: da un lato a comprendere il senso nascosto nella comunicazione verbale e non verbale del paziente e dall’altro a definire con una diagnosi la sofferenza muta e spesso intraducibile che l’incontro con il paziente mi comunicava. Ho tante volte messo in discussione il mio sentire, come se potesse rappresentare un limite soggettivo a poter sintetizzare e convertire, in virtù del mio essere psichiatra, la sofferenza psichica del paziente in una categoria di sintomi, verso una mera oggettivazione assimilabile ad una patologia dell’organismo.

A tal proposito, mi risuonano in mente le parole di S. Agostino sul tempo: se nessuno me lo domanda lo so, se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più.

Se diamo uno sguardo alla travagliata storia della psichiatria italiana, mi sembra di poter affermare che la fase matura a cui approda la psichiatria italiana si snoda attraverso un percorso evolutivo che dura ormai da alcuni decenni e che trova il suo centro originario con l’emanazione della Legge 180 del 1978.

Dopo questa data la vicenda psichiatrica è sembrata assumere, nella percezione diffusa, un aspetto prevalentemente istituzionale: un travagliato processo di applicazione della legge di riforma con il dibattito che non ha cessato di accompagnarla, al punto che la riforma stessa sembra non essere stata mai realmente acquisita, ma piuttosto vissuta come qualcosa di precario o di provvisorio destinato ad essere comunque prima o poi modificato.

Per molto tempo sono rimasti in primo piano pressoché esclusivamente gli aspetti suscitatori di scandalo, ma è rimasto occultato il movimento generale della psichiatria, con le sue antinomie, ma anche con il suo indubbio spessore problematico. Potrebbe infatti risultare troppo generico esprimersi nel senso di Nuova Psichiatria in assoluto. Le asincronie e le asintonie che osserviamo attualmente sembrerebbero impedirlo.

È indubbio che l’intenso rinnovamento degli strumenti culturali a partire dagli anni Sessanta insieme con l’assetto oggettivo imposto dalla riforma alla pratica della psichiatria, ovvero il costituirsi dei servizi nel territorio in un movimento centripeto, rivoluzionario e catastrofico al tempo stesso, hanno generato un modo di essere della psichiatria stessa che è del tutto nuovo rispetto alla sua origine. A partire dagli anni Sessanta, verosimilmente, la nuova era della psichiatria italiana si avvia come movimento complesso che mette in crisi sul piano concettuale ed operativo il sistema manicomiale e sul piano culturale l’impianto clinico-neurologico. Qui si associa l’impegno politico di quegli anni nella possibilità di riuscire a portare avanti l’ardua impresa della deistitulizzazione e della trasformazione della psichiatria vissuta come progetto politico, tanto da imprimere in seguito un carattere etico e militante a gran parte della nuova psichiatria italiana, un carattere che, anche indipendentemente da coloriture ideologiche definite, si è mantenuto a lungo e ha contribuito al consolidarsi della concezione della psichiatria pubblica nel suo costituirsi come servizio, parola chiave, questa, e specifica del movimento di cambiamento della psichiatria, un cambiamento che non è dovuto a “invenzione” dal nulla, ma perché diventa il luogo in cui si combinano le competenze, si esprimono ruoli e saperi diversi, dove si producono interventi complessi. Mi sembra importante evidenziare due delle numerose conseguenze della riforma del 1978: da un lato l’abolizione del dispositivo centralizzato manicomiale, quale principio organizzatore della psichiatria, e di conseguenza la sostituzione con il principio territoriale, radicalmente diverso, più ampio e complesso; da un altro lato la denominazione di territorio, qui inteso nel senso più concreto, antropologico senza alcun riferimento ideologico. Alcuni autori hanno parlato di psichiatria nella comunità per meglio rappresentare l’azione centrifuga della nuova psichiatria che si sviluppa all’interno delle diverse realtà comunitarie, ciascuna con la propria peculiare organizzazione e con i suoi modi di funzionamento, attraverso l’articolazione capillare dei servizi territoriali.

Il nuovo sistema di assistenza psichiatrica esteso orizzontalmente moltiplica la presenza della psichiatria sul territorio e quindi le sedi e i problemi con cui nelle comunità essa è portata a confrontarsi.

La materia psichiatrica, in quanto specializzazione della medicina, non sembra rispondere più al mandato di controllo disciplinare sui comportamenti morbosi. La funzione del controllo del comportamento definisce, per certi versi, lo stretto legame con la sfera del pubblico, ed è proprio questo legame con la sfera del pubblico che rende impossibile ogni pretesa di autoreferenzialità o di assoluta indipendenza clinica. L’estrema eterogeneità della materia all’interno della nuova costituzione extramanicomiale porta altresì in sé quella dimensione della psichiatria che è fatta di incertezze, rivelandone il carattere eternamente provvisorio e precario. Lo stato dell’arte oggi viene còlto soprattutto nel suo profilo problematico, o forse ancor più, a mio avviso, vi si può ravvisare un sempre più profondo processo involutivo e tendenzialmente pericoloso. La crescita dei servizi nel territorio ha prodotto nuove conoscenze ed entusiasmi, che negli ultimi anni per problematiche politico-economiche si sono affievoliti dando spazio a drastici riduzionismi di tipo ideologico e operativo.

Da un’analisi più attuale di come funzionano i servizi, per mia esperienza ho visto che gli operatori sanitari dei servizi psichiatrici spesso non conoscono Basaglia, oppure ne hanno soltanto orecchiato il nome, oltre al fatto che, purtroppo, i più non hanno una formazione psicodinamica. Nonostante tutto, il modello basagliano-psicoanalitico rimane nello sfondo del lavoro psichiatrico, e sembra funzionare come una sorta di feticcio; pertanto, nessuno negherebbe in una discussione tra operatori il ruolo della democrazia che deve coinvolgere anche e necessariamente i pazienti. Ma la mentalità oggi è quella della psichiatria istituzionale, e, in quanto feticcio, la psichiatria democratica di stampo basagliano rimane un’entità tanto necessaria quanto non pensata. Delle vicende della psichiatria post-180, del grande cambiamento vissuto in quel tempo e dello spirito di cambiamento che lo animava è rimasto ben poco. Oggi sembra che la legge Basaglia abbia introdotto il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) per rispondere esclusivamente ad una procedura di controllo sociale e non che sia all’interno di una legislazione rivoluzionaria prevalentemente rivolta al riconoscimento dei diritti e della dignità del paziente che ha una malattia mentale.

Ciò che rimane è un linguaggio svuotato del suo significato originale e da cui attingere atteggiamenti deprivati di autenticità e di senso, vòlti, per lo più, a ridurre l’angoscia sociale rispetto alla follia e a riempire il vuoto di un pensiero clinico, qui inteso come forma del pensare con e per il paziente. In assenza di pensiero clinico, pertanto, si producono meccanismi collusivi, confusivi e spesso antiterapeutici.

In Italia, la necessità di modificare profondamente la psichiatria manicomiale, a mio avviso, ha imposto una sorta di alleanza politica tra il modello basagliano già politicizzato e il modello psicoanalitico percepito come modello emancipativo.

Entrambi i modelli, enfatizzando l’aspetto liberatorio dalla psichiatria istituzionale manicomiale, hanno concorso al graduale impoverimento della psicopatologia e del discorso psicoanalitico, con una conseguente perdita di interesse verso la riflessione teorico-clinica sulle gravi patologie psichiatriche, relegando da un lato la cura psichiatrica ad un movimento di liberazione politica, e dall’altro confinando l’aspetto psicoterapico ad una modalità di rapporto medico-paziente svolto negli studi privati, eludendo il nuovo funzionamento istituzionale subentrato alla chiusura dei manicomi.

La psicopatologia, sorta quasi un secolo fa, ha rappresentato un cambiamento epocale e una svolta del concetto di follia e del rapporto con il paziente psichiatrico. Essa darà forma ad un corpus di nozioni sistematizzate, il cui focus sarà il contatto tra psichiatra e paziente, in una realtà di incontro, costituita dall’ascolto. La psicopatologia ha portato avanti il tentativo di fondare una scienza, oggettiva nel senso della comunicabilità, dei fenomeni soggettivi, ponendosi a livello intermedio tra quello dei sintomi e quello delle teorie esplicative; il discorso psicopatologico è un discorso sul metodo in virtù di una ricerca di autonomia della psichiatria, attraverso un linguaggio proprio che possa travalicare il caos della follia, e riuscire a delineare un progetto individuale di mondo, sia pur tragico e quasi sempre fallimentare.

Jaspers, nel suo trattato sulla Psicopatologia, afferma fin dalle prime pagine, che comprendere e spiegare stanno l’uno accanto all’altro, in un continuum di una stessa situazione patologica; l’articolazione fra comprendere e spiegare ci introduce alla complessità della sofferenza psichica.

L’area della psicopatologia può essere vissuta come frustrante, distante da quelle spiegazioni causali che risultano rassicuranti anche se ipotetiche e parcellari. Motivo per cui oggi non è una valida alternativa all’approccio diagnostico basato sulla sistematizzazione e categorizzazione dei sintomi, in quanto la ricerca in psichiatria segue altri filoni più di ordine statistico-matematico. Purtuttavia, le condizioni dei servizi di salute mentale, la messa in crisi del modo di procedere in psichiatria, sollecitano la ripresa di un dibattito che oggi però sembra orientato verso un registro di denuncia e polemica che rischia di non attivare nuove forme di pensiero.

Illuminanti, a tal proposito le parole di Foucault che estendiamo anche alla psichiatria: «È la curiosità; la sola specie di curiosità, comunque, che meriti di esser praticata con una certa ostinazione: non già quella che cerca di assimilare ciò che conviene conoscere, ma quella che consente di smarrire le proprie certezze» (1984, p. 13).

La psicopatologia, in tal senso, si offre come un campo di conoscenze scientifiche, che per la molteplicità dei fenomeni psichici, parafrasando Jaspers, non si esauriscono nella formulazione di frettolose diagnosi o categorizzazioni, ma mantengono quella tensione conoscitiva che invita a chi fa pratica della psicopatologia, all’esercizio di pazienza e di attesa.

L’atteggiamento fenomenologico, così come la ricerca psicopatologica, si rivolge in modo rispettoso alle esperienze interne dell’uomo, ai suoi vissuti quali possibili espressioni di senso. Non c’è psicopatologia senza questa sostanziale preoccupazione e considerazione. La psicopatologia quale metodo diventa la risultante di un esercizio fenomenologico che coniuga insieme diverse fonti culturali, esercitando una continua riflessione sui vissuti che il paziente comunica. È questo esercizio che mantiene lo psicopatologo di fronte al paziente nella posizione di eterno specializzando. Una ricerca di elementi ordinatori, quella dello psicopatologo, che si interseca con l’esperienza dell’incontro con l’individuo, che per definizione è irripetibile e unica.

Il discorso analitico si può declinare all’interno di una prassi psichiatrica attraverso una riflessione continua su nuove forme di cura e di ascolto dell’individuo che manifesta una sofferenza psichica.

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L’approccio junghiano, a mio avviso, si dona come un ulteriore momento di confronto sia per l’impianto teorico-clinico che la psicologia del profondo propone, ma soprattutto per la prassi clinica che Jung nei suoi scritti, in particolare nel volume terzo delle opere complete, Psicogenesi delle malattie mentali, ha lasciato come testimonianza della sua esperienza di psichiatra al Burghölzli di Zurigo.

Faccio riferimento a questi scritti di Jung, che si riferiscono al periodo del Burghölzli, perché sono stati illuminanti nel mio percorso di psichiatra, per la messa in sospensione di quella prassi sterile e ripetitiva sul piano concreto, che è al tempo stesso angosciante e possibile deriva per chi lavora nelle istituzioni.

Una domanda che sempre ha accompagnato la mia ormai lunga esperienza nei servizi è se lo psicoanalista può continuare a lavorare all’interno dei servizi psichiatrici mantenendo interconnessi i diversi livelli intrapsichici di funzionamento. Questione che si è sviluppata all’interno di un dibattimento tra le varie scuole psicoanalitiche e che ancora rimane un tema sempre vivo, per chi si trova a riflettere sulla complessità del come prendersi cura e allo scacco che si verifica nel rimanere in prossimità.

La mia ricerca personale è stata continua, attraverso la messa in tensione dei diversi aspetti del lavoro nei servizi, con perenni oscillazioni tra i diversi poli e con il rischio, vissuto a volte come salvifico, di un utilizzo intellettualizzato della psicologia analitica. Spesso la mia formazione analitica è stata un biglietto di presentazione, venivo idealizzata dagli operatori dei servizi dove arrivavo, come se, ancor prima di conoscermi, potessi interrogare la psicoanalisi. Il lavoro clinico, purtuttavia, ha riportato sempre alla realtà del confronto tra gli operatori, rappresentando il più efficace antidoto a tale rischio.

Altrettanto generativi per il mio lavoro al servizio sono stati alcuni concetti della psicoanalisi classica riguardanti gli aspetti intrapsichici e relazionali, quali: i funzionamenti di gruppo (Bion), il campo istituzionale (Baranger, Correale e Ferro). Mi piace qui precisare che, il riferirsi ad alcuni autori per la formazione di un proprio percorso culturale e di teorie personali non fondono un metodo, ma contribuiscono alla costruzione di un’etica professionale.

Racamier così si esprime riguardo alla figura dello psicoanalista nei servizi psichiatrici (1982 p. 45):

«egli deve collocarsi ad un livello di approccio elementare e non stancarsi di insegnare il rispetto dell’individuo, non solo nel suo modo di accostarsi al malato, ma anche nel suo modo di lavorare in gruppo, senza fregiarsi del suo prestigio, del suo titolo o della sua funzione, sapendo ascoltare e discutere, per realizzare un lavoro realmente multidisciplinare».

La mia esperienza nel lavoro, nell’ambito delle dipendenze patologiche, mi ha condotto verso un’attenzione sempre costante, alla fenomenica psicopatologica che può nascondersi dietro alle condotte di uso/abuso di sostanze psicotrope, fornendomi sempre nuovi stimoli nella ricerca di eventuali quadri clinici di esordio psicotico e schizofrenico: l’atmosfera della sospensione, data dalle sostanze, contro la terribile percezione di una trasformazione psichica in atto.

Oggi sono una dirigente all’ASP di Palermo e coordino un servizio per la cura delle Dipendenze Patologiche, mi ritrovo a poter osservare da un vertice più organizzativo e di supervisione il modo di pensare i servizi psichiatrici, il concetto di cura e le conseguenti procedure che connettono i diversi servizi, ambulatori della città (CSM e SerD, SPDC) e le strutture residenziali riabilitative (CTA e Comunità in Doppia Diagnosi). Tale nuovo vertice di osservazione, se da un lato può rappresentare un mio commiato all’esperienza lavorativa in ambito dei servizi psichiatrici, dall’altro mi porta a riflettere sull’importanza di continuare a mettere in sospensione ciò che può rappresentare oggi la crisi delle istituzioni in termini più simbolici e collettivi per riportare la riflessione su dimensioni meno concrete e per questo meno illuminate.


Bibliografia

  • Basaglia F.  (a cura di) 1968, L’istituzione negata, Einaudi editore, Torino.
  • Foucault M. 1984, L’uso dei piaceri, tr. it. di L. Guarino, Feltrinelli, Milano.
  • Jung C.G. 1907, Psychogenese der Geisteskrankheite, Gesammelte Werke, Band 3, Walter Verlag,  [ed. it., Psicologia della dementia praecox, Opere complete, vol. III, Bollati Boringhieri, Torino, 1986].
  • Racamier P.C., 1970, Le Psychanaliste sans divane, Payot, Paris, 1970  [ed. it. Lo psicoanalista senza divano, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1982].

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