
2024 Nuova Serie Numero 5 Invito alla Lettura Monografia Franco Basaglia
A CURA DI ROBERTO MANCIOCCHI La rubrica Invito alla lettura propone indicazioni in merito ai contributi più attuali e significativi della psicoterapia con uno sguardo attento agli attuali sviluppi del pensiero teorico; sarà ovviamente presente una forma di dialogo con la letteratura, la filosofia, le neuroscienze e le arti. La rubrica sarà, a seconda dei numeri, completata da una sezione di recensioni, nella quale alcuni psicoterapeuti commenteranno le più interessanti novità del panorama italiano e internazionale.
Enrico Ferrari, La bellezza salverà la psiche? Sguardi sull’anima e sul mondo
Voi non conoscete né me né il Padre mio. Se conosceste me conoscereste anche Dio (Gv 8,19). Sono le parole che Johannes pronuncia all’indirizzo del padre nello splendido film di Th. Dreyer Ordet-la Parola (1954). Mi è venuto in mente questo film, che con l’occasione ho rivisto, leggendo il libro di Ferrari, La bellezza salverà la psiche?, un titolo che echeggia quanto il giovane Ippòlit chiede insistentemente al principe Miškin: «È vero, principe, che voi diceste un giorno che il mondo lo salverà la “bellezza”? Signori, – gridò forte a tutti, – il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza. E io affermo che questi giocosi pensieri gli vengono in mente perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato; poco fa, appena è entrato, me ne sono convinto. Non arrossite, principe, se no mi farete pena. Quale bellezza salverà il mondo?» (Dostoevskij 1981, p. 378).
Poi c’è un’altra frase del film che mi piace citare: Il meraviglioso è possibile nei nostri tempi?
Perché questi accostamenti di temi esistenziali così profondi e che potrebbero sembrare lontani dalla nostra pratica con un libro di psicologia analitica? Tenterò più in là di dare una qualche ragione alle associazioni che mi sono sembrate più significative. Mi limito per ora a dire, ma ad alta voce e con vigore, che questo non è un libro di “tecnica” psicoanalitica, ma è un libro che si rivolge a quegli psicoterapeuti che sentono il loro lavoro non come l’applicazione di una teoria, di un metodo, di un modello ecc. ma che lo intendono come un segmento, sia pur ampio e assolutamente imprescindibile, di temi che hanno a che fare con l’essere umano nella sua totalità e anche complessità.
D’altra parte, per ammissione esplicita dell’autore, la “bussola” di cui egli si avvale è quella della psicopatologia fenomenologica e della psicologia analitica junghiana. E sono i due orientamenti in campo psicologico (che tra l’altro sono anche i miei) che aprono la psiche al mondo, inteso tanto come ambiente che circonda una persona, quanto come totalità delle cose che accadono, totalità dei fenomeni.
Lo stesso Mario Trevi, anche lui profondo conoscitore dei concetti della psicopatologia fenomenologica, si poneva la domanda se fosse attingibile l’unità della psiche. «Può lo psicologo prescindere dalla propria disposizione psicologica, dai suoi parametri soggettivi?» (1988. p. 16).
Come a dire. “Si può fare a meno di un soggetto, con tutte le sue limitazioni e parzialità, nel processo di conoscenza?”
E Ferrari, parlando delle due discipline che lo hanno nutrito e formato: «[…] hanno statuti epistemologici differenti, ma qualcosa le avvicina al punto da farle incontrare […] il primato del soggetto sulla teoria» (p. 13).
Due prospettive, quella di Trevi e di Ferrari, che convergono sulla dimensione empirica della psiche e che inquadrano l’esercizio della psicoterapia all’interno della prospettiva linguistica. Sgombriamo subito il campo: il linguaggio non è inteso qui nella freddezza del corretto ragionamento e della corretta argomentazione, non è il logos della tradizione occidentale, quanto, piuttosto, quello che si trova nella pienezza della parola emozionale, nei racconti che fanno i pazienti e nel racconto che di essi fa il terapeuta, in quella continua fluidità che è, a sua volta, il racconto dell’esistenza. Di una singola esistenza immersa nel suo circoscritto ambiente che la circonda ma anche di un’esistenza che, per non morire asfittica, vuole respirare in radure più ampie e aprire il suo sguardo fino al cielo. Sguardi sull’anima e sul mondo è il sottotitolo del libro, sguardi sul soggetto nella unicità, particolarità e circostanzialità, ma anche sguardi su quel mondo più grande, i cui confini sono difficili da misurare con un metro che non sia quello del numero. Forse è stata proprio “la parola”, l’ordine del discorso, per cui ho associato quasi istintivamente il libro di Ferrari con il film di Dreyer. Ma non si tratta di un’associazione estrinseca o, ancor peggio, solo fonetica. Vero è che, nel caso del film, la Parola è quella con la maiuscola del Verbo, Ordet è il Verbo in danese con cui si apre il Vangelo di Giovanni, è la Parola di Dio. Certo non è la parola “minuscola” del discorso psicologico, o di quei discorsi che si intrecciano tra paziente e terapeuta nel corso di un processo psicoterapeutico. Si tratta certamente di ordini di discorso lontani tra di loro.
C’è stato però un tramite che silenziosamente e inaspettatamente me li ha fatti avvicinare, sia pure in modalità sui generis, di cui parlerò. Questo medium tra la parola e la Parola è stato la bellezza, la bellezza del titolo del libro, certo non casuale, e la bellezza interrogata da Dostoevskij nella domanda che viene rivolta a Miškin: Può la bellezza salvare il mondo? E di quale bellezza si tratta? E Ferrari: «Si può pensare di coltivare la bellezza e la salvezza oggi, tempo del pericolo e della corsa all’utile?» (p. 11).
Ecco, questo libro si propone proprio di articolare questa domanda e, come è giusto che sia, le risposte sono narrative, discorsive e aperte. E continuando il discorso sul linguaggio e la “p/P-arola”, una domanda circola sotterranea, una domanda paradossale e aporetica insieme, ma anche densa di senso: si possono trasformare le esperienze in oggetti di conoscenza? E se questo è possibile, qual è la strada da percorrere?
Una risposta parziale ma certa è che non può essere la strada dell’oggettivazione. E Ferrari non si affida ad una narrazione “astratta”, individuando tematiche oggettive; piuttosto, mette in evidenza l’immaginare come terreno psichico di scambi tra le persone, senza mai dimenticare che, in ogni rapporto e in quello terapeutico per quanto ci riguarda in modo specifico, le persone non sono “oggetti”, neppure di conoscenza, e non potranno né dovranno mai esserlo. La cura è un incontro con l’altro, con la necessità di creare uno spazio in cui questo incontro possa realizzarsi e, in questo libro, Ferrari focalizza l’attenzione sulla dimensione della “bellezza” che può diventare la prospettiva da cui aprire questo spazio. Perché la bellezza ha una sua “forza”, che non è quella comunemente intesa dei canoni estetici consegnatici dalla tradizione; la forza del bello, oggi, non è l’esclusione della difformità e deformità, l’esclusione di ciò che non rientra in quei canoni. Se oggi l’estetica ha una sua potenza energetica è perché ha incluso in sé il dif-forme, che è la stessa ragione per cui può dialogare con il pensiero psicologico, psicopatologico e psicoterapeutico.
Soffermiamoci su questa frase tratta dal libro (p. 94): «La bellezza junghiana è quella della psicopatologia individuale coniugata con l’ampiezza dell’universale, della continuità della clinica della malattia e l’esperienza umana non annoverata nella patologia, della tensione a unire le facoltà razionali dell’individuo con le sue facoltà irrazionali».
Mi sono sembrate parole che vanno anche oltre all’indicazione di non “spezzettare” Jung ma di leggerlo con continuità, dalla prima sua esperienza clinica, non esclusi gli “esperimenti”, fino a quella “bellezza” che si trova in alcune immagini che però potrebbero perdere il loro “senso” più profondo se separate da quelle parole della clinica che hanno nutrito il “primo” Jung. La Bellezza è anche il tratto che unisce empiria e totalità, particolare e universale, per dirla con le parole della tradizione filosofica occidentale, senza che l’uno “uccida” l’altro. Lo spazio estetico è anche lo spazio clinico dell’incontro con il paziente. «Lo spazio estetico è forse il luogo in cui il pathos che è proprio dell’arte si confronta con il pathos del pensiero, con quella passione che possiamo riconoscere in Platone, in Nietzsche ma certamente anche in Hegel» Sono le parole del filosofo Franco Rella (2017, p. 59); se parliamo di pathos, parliamo anche di un soggetto che soffre e quindi di umanità.
Didi-Huberman, nella sua postfazione all’edizione del 2012 di Invention de l’hystérie mette in discussione quanto aveva precedentemente scritto sul «femminino terribile dell’isteria alla Salpêtrière» proprio udendo «le grida di dolore delle pazienti e dei pazienti ammessi nei padiglioni che circondavano la Bibliothèque Charcot, dove esploravo l’archivio di tutti quei dolori passati» (2017, p. 2). È sempre un colpo “patico” che toglie da un pensiero astratto e oggettivante, che fa progredire, avvicinando l’essere umano alla sua umanità. Perché è sempre proprio il colpo patico che porta in primo piano quella esigenza dell’impensato che è tanto dell’incontro psicoterapeutico quanto dell’incontro con l’arte.
E così Ferrari: «La bellezza junghiana … è la bellezza dell’incontro umano con l’altro, del contagio affettivo che ne scaturisce, dell’intuizione che accompagna sempre il pensiero razionale» (p. 97).
Mi rendo conto di essermi soffermata soltanto su alcuni aspetti di questo libro che ho letto con grande piacere e che consegno agli altri lettori che potranno trovarne anche molto altro da me trascurato. Ma questo va ad onore di questo libro che è così ricco di spunti, di immagini linguistiche che si aprono su mondi inaspettati e, soprattutto che, non chiudendo il discorso, lasciano spazi aperti all’immaginazione e quindi al respiro e alla vita.
Bibliografia
- Dostoevskij F 1981, L’idiota, Einaudi, Torino.
- Didi-Huberman G. 2017, Le immagini e i mali. Usi e disagi della sublimazione, in PsicoArt, n. 7.
- Rella F. 2017, Quale bellezza?, Orthotes, Napoli-Salerno.
- Trevi M., L’altra lettura di Jung, Raffaello Cortina, Milano 1988.
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