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Jung e Basaglia: verso un rinnovato rapporto medico-paziente

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

La follia: modelli della psiche e approcci terapeutici La psicologia analitica a 100 anni dalla nascita di Franco Basaglia

2024 Nuova Serie Numero 5 Monografia Franco Basaglia

Jung e Basaglia: verso un rinnovato rapporto medico-paziente

Pur non essendoci esplicite linee comuni tra Carl Gustav Jung e Franco Basaglia, alcune similitudini che verranno tratteggiate derivano da aspetti caratterizzanti due personalità epocali. Entrambi appaiono guidati in modo preponderante dall’esperienza diretta, rendendosi così portatori degli aspetti più contradditori della natura umana; sono inoltre accomunati dalla spinta a rinnovare il rapporto medico-paziente, mettendo in discussione quelle categorizzazioni generiche che hanno imprigionato la relazione terapeutica nella staticità di legame tra dominatore e dominato (Basaglia 2018a, p.153). L’aspetto qualitativo del rapporto terapeutico andrà a rappresentare il cardine sul quale sviluppare la ricerca di una somiglianza tra lo psichiatra fondatore della psicologia analitica e lo psichiatra che tanto si è battuto per la chiusura dei manicomi. I toni fenomenologici assunti da Jung e Basaglia consentono loro di addentrarsi nella sfera esperienziale che fornisce tratti di unicità all’evoluzione dell’approccio al paziente nell’ambito di una dimensione umana con tonalità affettiva. Nel mettere in risalto la natura dello psichico che di per sé non può essere univoca (Edinger 2008, p. 21), entrambi sembrano suscitare nel pubblico una serie di contradditorietà e malintesi. Jung ha ricevuto gli appellativi di “mistico” (Lachman 2012), “razzista” (Dalal 1988); nel suo studio dell’inconscio si addentra con audacia nell’affrontare alcune tematiche che i razionalisti aborriscono (Jung 2004). Basaglia viene ricordato come colui che liberò i malati, che ha rinnegato la malattia mentale, un’antipsichiatra. Ma se leggiamo le conferenze da lui tenute in Brasile, senza dare adito a fraintendimenti, afferma:

 

«Quelli che dicono che la malattia mentale non esiste, e che in questo modo vogliono negare l’esistenza della follia […] non hanno il coraggio di portare sino in fondo l’analisi della vita che viviamo» (Basaglia 2018b, p. 135);

«Io non sono un’antipsichiatra […], sono uno psichiatra che vuole dare al paziente una risposta alternativa a quella che gli è stata data finora» (ivi, p. 149);

«[…] non faccio parte di nessun movimento antipsichiatrico e rifiuto nella maniera più categorica di essere un antipsichiatra» (ivi, p. 180);

«[…] la malattia […] viene ad assumere un significato concretamente diverso, a seconda del livello sociale di chi è malato. Ciò non significa che la malattia non esiste […]» (ivi, p. 150).

Rapporto medico-paziente

 Il contributo di Jung e Basaglia rimane inestimabile sotto vari aspetti; intendiamo qui limitarci a considerarne il potenziale impatto nell’attuale ambito delle istituzioni, seguendo il richiamo da parte di entrambi ad una differente qualità del rapporto terapeutico. Coloro che prestano servizio nella realtà istituzionale attuale si saranno facilmente imbattuti in processi che sembrano perdurare dai tempi in cui Basaglia li ha messi in risalto, senza nulla togliere ai consistenti progressi che si sono verificati con l’apertura dei reparti psichiatrici. Pensiamo per esempio all’inserimento nelle comunità terapeutiche per il quale il termine “ricovero” risulta formalmente fuori luogo ma che si traduce talvolta, a conti fatti, in una degenza di svariati anni di colui che non può più essere chiamato paziente ma “ospite”. Il tutto mantenuto da scarsa rete sociale e/o difficoltà lavorative, situazioni che sussistono sul territorio nazionale anche per molte persone non ospedalizzate. Quando invece la degenza risulta più breve, si assiste con una certa frequenza al fenomeno del revolving door, ritrovandoci a rivedere gli stessi volti accedere alle medesime strutture locali. Un ulteriore aspetto portato in luce da Basaglia (Basaglia 2018b, p. 146) come caratterizzante il controllo esercitato dal medico sul paziente, e tuttora spesso osservato, è quello di comunicare al diretto interessato che si tratta di una permanenza di “una o due settimane e poi si vedrà”. Il paziente si ritrova successivamente coinvolto in un continuo passaggio tra reparti psichiatrici, venendone inglobato per mesi o addirittura anni. Quindi, una sorta di inganno dialettico che continua talvolta a prevalere sulla qualità di spontaneità relazionale che renderebbe invece l’incontro terapeutico un momento di confronto.

Tornando indietro nel tempo e ripercorrendo le testimonianze del primo reparto psichiatrico aperto a Gorizia, ciò che ci si aspettava dai malati – un’uscita di massa – non si è poi verificato. Quello che emerse fu invece il malcontento di infermieri e medici che si mostrarono scettici nei confronti dei potenziali miglioramenti a cui si auspicava potesse andare incontro l’ammalato che si liberava dalla reclusione (Basaglia 2018a, p. 94). Ancora una volta risalta l’aspetto difensivo da parte di coloro che dovrebbero facilitare il rapporto di cura. Di fronte a una tale barriera, Jung e Basaglia colgono nuove aperture. Risulta quasi inevitabile domandarsi cosa abbia significato liberare i malati dai manicomi. Per essere considerata civile, la società necessita di possedere i tratti della razionalità con i quali tenta di controllare tutto ciò che è irrazionale (Basaglia 2018b, p. 46). Quindi il manicomio inteso come un’istituzione razionale (ibidem), atta ad assoggettare l’irrazionale al dominio della ragione. Questo atavico confronto, tra gli aspetti di pertinenza della ragione e di tutto ciò che non lo è, viene colto anche nella stanza di analisi quando pazienti con importanti inondazioni inconsce così si esprimono: «Se continua così, ho paura di finire in un ospedale psichiatrico!». Parole che racchiudono una consistente difficoltà nel gestire il proprio inconscio al punto da aspirare quasi al contenimento fornito dalle solide mura istituzionali. L’ospedale diventa una sorta di metaforica protesi che rimpiazza la mancata capacità di reperire un contenitore interiore autoregolante.

Se ad una prima lettura potrebbe apparire che uno sia maggiormente rivolto all’intrapsichico e l’altro al contesto in cui è inserito il paziente, l’approfondimento del discorso a una reciproca interconnessione tra sistemi ci permette di guardare oltre tale dicotomia: le vedute intrapsichiche e sociali si fondono in ciò che Jung esprime quando fa riferimento a due sistemi che interagiscono reciprocamente, producendo un’influenza psichica (Jung 1954/1993, p. 4). Quando Basaglia denota che quello che accade nelle istituzioni rispecchia ciò che si verifica nella società su più larga scala (Basaglia 2018b, p. 108) siamo di fronte alle interazioni tra microcosmo e macrocosmo junghiano (Jung 1954/1993, p. 312). Jung si spinge oltre Basaglia nell’affermare che è l’uomo stesso che porta in sé una replica del mondo (ibidem). Da una parte abbiamo Basaglia secondo cui il malato va integrato e accolto nella società, venendosi a delineare un chiaro richiamo alla coscienza e responsabilità dell’individuo come cittadino; dall’altra abbiamo Jung secondo cui l’uomo non si deve dissolvere nelle svariate possibilità e tendenze imposte dall’inconscio ma deve diventare l’unità che le integra (Jung 1954/1993, p. 197). Entrambi sembrano però condividere una similare prospettiva verso il rapporto intercorrente tra medico e paziente: Jung lo esprime con la necessità che tanto il terapeuta quanto il paziente debbano essere in analisi; Basaglia afferma che la terapia acquista senso quando si crea una relazione non tanto basata sul potere quanto sui principi di reciprocità e complicità (Basaglia 2018b, pp. 40-41).

In un processo avviato a Gorizia e continuato a Trieste, Basaglia esamina la situazione problematica del malato non come diagnosi, oggetto, ma come «crisi esistenziale, sociale, famigliare» (ivi, p. 13), quindi, in quanto tale, la crisi è una soggettività in grado di creare tensione nel medico (ibidem). La tensione si rende manifesta solo quando nella relazione c’è vita (ivi, p. 8). Quindi la funzionalità della cura necessita non solo della tensione nel paziente ma anche nel terapeuta il quale, in questo modo, entra nella relazione rinunciando a esercitare in modo oppressivo e senza alcuna dialettica (ivi, p. 7). L’aspetto del medico tanto in relazione quanto il paziente richiama inevitabilmente Jung (Jung 1954/1993, p. 5). Anche Bion, nel ricordarci l’essenza del processo analitico, fa riferimento alla capacità di pensare e sostare in una situazione di estrema tensione (Bion 2011, p. 49). Possiamo cogliere questo processo nella modalità con cui le frequenti riunioni tra operatori e pazienti scandivano la vita quotidiana nell’Ospedale di Gorizia e che non avevano la funzione di psicoterapia di gruppo, con l’obbligo a parteciparvi secondo modalità dettate dall’intelligenza medica (Basaglia 2018a, pp. 40-41). Piuttosto assumevano valore nella misura in cui il paziente esprimeva una decisione, ossia sceglieva di presenziare o meno alle riunioni, esponendosi o declinando il confronto con l’altro (ibidem). Basaglia mirava a nutrire e ampliare situazioni ospedaliere che implicassero una certa «spontaneità di scelta» (ivi, p. 41), fornendo al paziente occasioni di sperimentare rapporti interpersonali basati su uno scambio reciproco (ivi, p. 42). Ha cercato di scardinare il rapporto di controllo con il paziente, ponendo in discussione il mandato sociale di psichiatri e infermieri quale quello di «difensori della società nei confronti dei malati» (ivi, p. 42). Medici e pazienti erano così uniti secondo un principio di esclusione: tanto i pazienti dei manicomi sono esclusi dalla società quanto «gli stessi psichiatri sono degli esclusi» (ivi, p. 42) nel momento in cui si alleano inconsciamente con la classe dominante (ibidem).

Nonostante Jung e Basaglia sembrino profondamente accomunati dalla spinta a rinnovare la relazione terapeutica, le parole che Basaglia rivolge verso la psicoanalisi ne presuppongono una messa in discussione, senza mai prendere le parti o seguire unilateralmente critiche feroci verso di essa. Nella conferenza tenuta a San Paolo il 19 giugno 1979, Basaglia riconosce alla terapia analitica la capacità di apportare reciprocità nella diade medico-paziente (Basaglia 2018b, p. 40). Allo stesso tempo, quando la definisce una “tecnica” risulta arduo comprendere a pieno cosa intendesse, forse un po’ troppo accecato dal fatto che fosse una terapia per i ricchi (ivi, pp. 63-64), «un codice del pensiero borghese» (ivi, p. 63) che non ha niente a che fare con la psichiatria istituzionale. Partendo dal contesto socio-economico, le parole di Basaglia sono realisticamente sferzanti: chi riesce a sostenersi economicamente può esprimere sofferenza, chi invece non ha i mezzi può conoscere solo lo stato di sopravvivenza, certamente non può permettersi di esprimere altre forme di dolore più profondamente legate ad aspetti esistenziali (ivi, p. 40). Se riconsideriamo tale posizione da una prospettiva intrapsichica, le cose diventano sempre meno certe e possiamo cogliere anche la parzialità del pensiero basagliano, prendendo per esempio in considerazione la psicoanalisi che entra nell’istituzione attraverso una figura professionale di sintesi, lo psichiatra analista. Rispetto ad un’analisi condotta in un setting classico, si tratta di inserire l’approccio analitico in un contesto inquinato da interferenze, talvolta anche violente, ma ne rimane comunque l’essenza: fornire una differente qualità relazionale, rendendosi promotori di un’apertura dialogica. Del resto, l’analista che svolge lavoro istituzionale non smette di essere tale nel momento in cui entra in un ospedale psichiatrico. Ciò non è così diverso dalle aspirazioni di Basaglia nel forgiare un concetto di terapia che acquista senso in un rapporto di reciprocità (ibidem). Jung è imperativo nel sostenere che il terapeuta debba seguire un procedimento puramente dialettico, e per fare questo è tenuto ad abbandonare qualsivoglia preconcetto e tecnica (Jung 1954/1993, pp. 7-8). Entrambi giungono ad una medesima considerazione: Basaglia sostiene in più occasioni che l’intelligenza medica non può dominare o sostituirsi al paziente (Basaglia 2018b, pp. 40, 46-47, 58-59, 68); per Jung il medico non si deve tanto immedesimare nel ruolo di un agente di trattamento quanto piuttosto essere un partecipante attivo nella diade analitica (Jung 1954/1993, p. 8).

 Conclusioni

Immergersi nella lettura delle Conferenze brasiliane (Basaglia 2018b) nel periodo post governo Bolsonaro è sicuramente di forte impatto, mettendoci di fronte ai limiti di un progetto che si è successivamente scontrato con un dilagante sistema di salute sempre più privatizzato (Saraceno 2022): un aspetto di crisi del servizio pubblico che sta prevalendo anche in Italia nell’ultimo periodo. Tuttavia questo ci permette di arginare, almeno su di un piano dialogico, i distanziamenti che sono stati assunti verso l’analisi, colta come mera tecnica per pazienti ricchi. L’eredità che riceviamo da Jung e Basaglia è proprio quella di trovare nuove aperture di dialogo, nonostante le difficoltà insite nella contemporaneità.

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Benedetto Saraceno (2022) sottolinea l’azione di smantellamento della riforma psichiatrica brasiliana ad opera del governo Bolsonaro. Mettendo a confronto Basaglia e Jung, essi sono uniti da una tendenza ad esplorare modi di conciliare rispettivamente l’irrazionale con il razionale, l’inconscio con il conscio, includendo la soggettività di ciascun paziente. Basaglia esprime l’impossibilità di fornire risposte generali, quindi istituzionalizzate, e mette in luce quanto il problema risieda nell’identificare e percorrere strade specifiche con ciascuna persona (Basaglia 2018b, p. 174).

Partendo da una personale esperienza di medico analista che opera nella realtà ospedaliera, ritengo che un’eredità congiunta che riceviamo dai due psichiatri messi a confronto sia quella di proseguire almeno il tentativo di smantellare le dinamiche di potere medico-paziente. Non tanto tramite azioni mirate quanto piuttosto adottando un differente assetto interno che includa l’esserci. Nel momento in cui si rimane passivi osservatori di dinamiche di controllo, inevitabilmente il rapporto terapeutico viene snaturato da quegli aspetti antropo-fenomenologici che Binswanger ha sintetizzato nel termine Daseinsanalyse (Binswanger 2018, pp. 47-48) e che richiamano tutte quelle aperture esperienziali che ci consentono di vivere il paziente non come oggetto ma come «partner esistenziale» (ivi, p. 169).

Nel lavoro istituzionale, risulta difficile sentirsi immuni dalle dinamiche di potere in qualità di operanti nel settore. In un modo o nell’altro, se ne viene mesmerizzati a livelli di intensità variabile da soggetto a soggetto, esperendo talvolta un’alternanza tra esserne promotore e vittima. Si intende fare qui riferimento al quotidiano modello vittima-aggressore con cui tutti vengono a contatto e che riecheggia anche negli antichi miti (Kast 2002, p. 5). La proiezione di queste due componenti complessuali verso il mondo esterno o verso un soggetto specifico può precludere l’accesso a quello stato di tensione vitale e di spontaneità emotiva che vanno ad arricchire il rapporto terapeutico, anche in un contesto complesso come quello istituzionale. Il richiamo di Jung all’intrapsichico può aiutarci nell’accogliere e integrare in noi quelle dinamiche subite e perpetrate e di trasformarle in una maggiore presa di coscienza, addentrandoci in un substrato condivisibile con il paziente.

Si è voluto pertanto fare emergere quanto il terreno comune tra Jung e Basaglia nello stimolare un differente rapporto di cura risieda nel più profondo aspetto antropologico e fenomenologico di essere nel mondo, esserci insieme ad altri (Binswanger 2018, pp. 51-52). Solo sostando nell’incontro si può dischiudere la strada verso una modalità di esserci, un mondo tra i tanti possibili, unica per ciascun individuo. In opposizione a una generale tendenza a focalizzarsi sulle deviazioni dei pazienti (ivi, p. 57), lo sguardo viene rivolto al mondo privato del paziente stesso, cercando di farlo accedere ad uno stato che Binswanger definirebbe un tentativo di trarre il proprio essere tra le innumerevoli possibilità di poter-essere (ivi, p. 59). Il fatto che il medico riconosca di condividere lo spazio istituzionale con il paziente lo pone di fronte a inevitabili limiti di cura, limiti lavorativi, in ogni modo limiti che espongono la diade terapeutica anche ai moti propulsivi della ricerca di un proprio modo di essere nel mondo e di potere essere. In questo forse risiede il valore inestimabile del processo di cura.


Bibliografia

  • Basaglia F. 2018a, L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Baldini &Castoldi, Milano.
  • Basaglia F. 2018b, Conferenze brasiliane, Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Basaglia F. 2024, Fare l’impossibile. Ragionando di psichiatria e potere, a cura di M. Setaro, Donzelli Editore, Roma.
  • Binswanger L. 2018, Daseinsanalyse, psichiatria, psicoterapia, Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Bion W.R. 2011, Seminari Italiani, Edizioni Borla, Roma.
  • Dalal F. 1988, Jung: a racist, in «British Journal of Psychotherapy», 4, pp. 263-279.
  • Edinger E.F. 2008, Anatomia della psiche, Vivarium, Milano.
  • Jung C.G. 1954/1993, The Practice of Psychotherapy, Routledge, London & New York.
  • Jung C.G. 1960/2014, The Structure and Dynamics of the Psyche, Routledge, London & New York.
  • Jung C.G. 2004, Un mito moderno: le cose che si vedono in cielo, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Kast V. 2002, Abbandonare il ruolo di vittima, Koinè, Roma.
  • Lachman G. 2012, Jung the Mystic: The Esoteric Dimensions of Carl Jung’s Life and Teachings, Penguin Publishing Group, New York.
  • Saraceno B. 2022, In Brasile tornano i manicomi, in  https://www.saluteinternazionale.info, 18 agosto 2024.

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