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La cura della persona con disagio psichiatrico dopo la Legge 180

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

La follia: modelli della psiche e approcci terapeutici La psicologia analitica a 100 anni dalla nascita di Franco Basaglia

2024 Nuova Serie Numero 5 Monografia Franco Basaglia

La cura della persona con disagio psichiatrico dopo la Legge 180

Caterina Romagnoli in dialogo con Giuseppe Ducci

 Negli anni in cui è entrata in vigore la Legge Basaglia, ero una giovane universitaria, tirocinante allOspedale Psichiatrico S. Maria della Pietà, poi volontaria al CSM di Via Ventura, e mi sono trovata ad assistere alle prime fasi del processo di deistituzionalizzazione: dallemarginazione, contenimento e custodia dei “malati mentali”, alla loro possibile cura, riabilitazione ed inclusione. Ricordo le assemblee distituto che si svolgevano nel Padiglione XXVI, da sempre sede della Direzione del “villaggio manicomiale”, con i direttori, Antonino Iaria e Ferdinando Pariante, gli assistenti, infermieri, volontari e una volta anche con Franco Basaglia.

Entrata nello spirito della riforma, ho passato anche intere giornate nella storica Biblioteca Cencelli, immersa nello studio di testi storici sulla psichiatria per la compilazione della mia tesi di laurea dal tema Evoluzione del concetto di diagnosi in psichiatria: dalla classificazione alla comprensione.

Nel 1993 Tommaso Losavio subentra come direttore ed assume lincarico della chiusura definitiva dellospedale psichiatrico, che avverrà nel 1999.

Tanti altri ricordi mi sono affiorati nel varcare lentrata del grande complesso del S. Maria della Pietà, quando mi sono incontrata, proprio nel Padiglione XXVI, con lattuale direttore del DSM della ASL Roma 1 dott. Giuseppe Ducci per una intervista sullassistenza e la cura della salute mentale dopo la Legge 180.   

 

 

C.R.  Il contributo profondo, coraggioso e rivoluzionario di Franco Basaglia, nel portare allo scoperto la sofferenza psichica umana rinchiusa e silenziata nei manicomi per renderla una dimensione condivisa a livello sociale e cercarne un senso, ha fatto nascere qualcosa che prima non c’era: la cura delle persone con sofferenza psichica grave.

Al di là delle applicazioni pratiche, pensa che sia rimasto qualcosa dello “spirito” basagliano oggi?

 

G.D. Io ho conosciuto Franco Basaglia quando ero ancora uno studente di liceo, ho fatto la maturità nel ’76 e sono andato ad un’assemblea di Psichiatria Democratica prima ancora della legge ’78, e certamente leggere L’istituzione negata (Basaglia 1968) è stata per me una motivazione forte a fare il medico e poi anche lo psichiatra. Mi sono laureato nel 1982, ma ero già venuto qui per la Festa di Primavera nel 1980 per costruire aquiloni con i pazienti che erano ancora ricoverati. Poi mi sono occupato del Padiglione XIX, la cosiddetta “Zona ospiti”, che era un luogo di transizione fra l’ospedale e il territorio.

Negli anni però ho imparato a conoscere molte altre realtà che, nello stesso periodo in cui Franco Basaglia ha operato, prima a Gorizia e poi a Trieste, hanno contribuito al processo di deistituzionalizzazione, cioè la chiusura dei manicomi da un lato, ma anche tutti i processi che hanno modificato l’approccio alla salute mentale, e questo è avvenuto in tutto il mondo.

Non dobbiamo pensare che in quegli anni Franco Basaglia fosse da solo, ci sono state altre esperienze molto significative ad Arezzo, a Reggio Emilia e in altri luoghi. Va ricordato il ruolo di Julian Leff [1] per quanto riguarda i manicomi di Londra. Lo stesso avveniva negli Stati Uniti. E non bisogna mai dimenticare il contributo di Giovanni Jervis dal punto di vista teorico, ma anche pratico.

Certamente Franco Basaglia rappresenta una figura simbolica, ma è opportuno ricordare che la Legge 180/78[2], conosciuta come Legge Basaglia, in realtà è stata scritta e presentata in Parlamento da Bruno Orsini, psichiatra e deputato della sinistra democristiana. Nella legge erano previsti i SPDC, ai quali Basaglia era contrario.

Basaglia è stato un grande innovatore e ha avuto la grande capacità di cogliere lo spirito dei tempi; quello che ha fatto l’ha fatto negli anni ’70, anni fondamentali per tutte le riforme in Italia, come lo statuto dei lavoratori[3] e le leggi su divorzio e aborto.

In quegli anni è stata emanata un’altra importantissima legge[4], importante quasi quanto la riforma psichiatrica: la legge sull’integrazione scolastica, che ha portato alla chiusura delle classi differenziali e degli istituti speciali, ed ha rappresentato un contributo di grandissima civiltà che ha dato l’Italia; quindi credo che gli anni ’70 hanno rappresentato un periodo particolarmente ricco di cambiamenti e di evoluzione anche nel senso di diritti delle persone, delle donne, delle persone sofferenti, dei bambini con ritardo mentale, con disturbo dello spettro autistico e così via.

Considerando quel contesto, oggi pensare che quello che Basaglia ha fatto, ha detto, ha scritto, sia applicabile alla situazione attuale, non ha senso. Per questo sono contrario all’applicazione del modello triestino su scala generalizzata. Il modello triestino va bene in un contesto storico e geografico particolare; la realtà attuale è molto diversa. Innanzitutto, abbiamo la realtà delle città metropolitane come quella dove io opero: un bacino d’utenza di oltre un milione di abitanti, cioè sei, sette volte la città di Trieste, con aspetti assolutamente nuovi, sul piano psicopatologico.

Dobbiamo considerare l’emergere dal buio della diagnosi dei disturbi del neuro-sviluppo. I disturbi dello spettro autistico, in particolare quelli ad alto funzionamento, e i disturbi da deficit di attenzione con iperattività, in termini epidemiologici, oggi, sono una presenza molto più prevalente dei grandi disturbi psichiatrici della schizofrenia e del disturbo bipolare.

L’altro aspetto psichiatrico nuovo e devastante, dopo il crollo del consumo dell’eroina, che peraltro è un ottimo antipsicotico, è il consumo epidemico di sostanze stimolanti che si sono riversate sul mercato e che producono malattie mentali con un meccanismo che ci permette anche di cogliere meglio i meccanismi di sviluppo del delirio e delle alterazioni più gravi della psicosi. Oggi non è più possibile trovare un adolescente che non abbia un disturbo mentale in co-morbilità con assunzione di sostanze. L’altra dimensione psicopatologica più emergente è quella della disregolazione emotiva affettiva e in generale della diminuita resilienza.

Questo fatto è in relazione a due eventi: la maggiore attenzione sulle primissime fasi della vita e il ruolo degli eventi catastrofici esterni.

Il neuro-scienziato Avshalom Caspi ed altri ricercatori (Caspi, Moffitt et al. 2013) hanno ipotizzato nel 2013 che i disturbi psichiatrici possano essere causati da un Fattore Psicopatologico Generale sottostante a tutti i disturbi – il fattore P – definito come maltreatment, (da non tradurre come maltrattamento o abuso ma come inadeguatezza genitoriale precoce). La disfunzione delle relazioni precoci di accudimento e cura determina modificazioni epigenetiche di alcuni geni e produce alterazioni cerebrali nelle aree deputate alla resilienza.

Studi molto interessanti sono stati fatti sull’epigenetica delle relazioni precoci su geni come il BDNF, l’ossitocina, il trasmettitore della serotonina e il recettore dei glucocorticoidi che possono essere considerati come markers della qualità della relazione e della relazione genitoriale in particolare.

L’altro aspetto fondamentale è legato a eventi esterni: nel 2013 il crollo del prezzo degli smartphone coincide proprio con un picco di psicopatologia nei più piccoli e nei minori; soprattutto, ha comportato una modificazione dei sistemi di regolazione: siamo passati da una co-regolazione, prima in famiglia, dopo la pubertà tra coetanei, a una dis-regolazione, con un eccesso di connessione e una mancanza di sintonizzazione emotivo-affettiva; questo fatto è estremamente rilevante e al momento non ci sono strategie di contrasto efficaci, per cui noi oggi troviamo una dis-regolazione da uso di device, ma non di dipendenza, proprio perché ha modificato lo stile relazionale tra le persone, in particolare tra i più piccoli.

 

C.R. L’eccessivo uso delle tecnologie digitali fin dalla prima infanzia, se da una parte favorisce una iper-connessione e infinite interazioni nel mondo virtuale, dall’altra accentua la carenza del contatto fisico, determinando una deprivazione emotiva e affettiva nelle relazioni primarie.

 

G.D. Certo, a livello di contatto, la sintonizzazione che possiamo avere io e lei in questo momento guardandoci negli occhi non è la stessa che abbiamo scrivendoci su WhatsApp. Oggi assistiamo al boom del cyberbullismo perché se io insulto una persona su WhatsApp, Tik Tok o su qualunque altro social, io non vedo la risposta emotiva dell’altro, non mi sintonizzo con la reazione che la persona può avere, non vedo se questa è arrabbiata, addolorata, contenta, eccetera.

Ci sono stati anche casi recenti di ragazzi che si sono suicidati per questo, perché non c’è una possibilità d’interazione e si perde la possibilità di sintonizzarsi anche con la propria vittima, che è uno degli aspetti fondamentali per imparare a co-regolarsi e quindi a modulare il proprio comportamento, la propria affettività e la propria emotività.

 

C.R. È noto che la pandemia Covid-19 ha avuto un forte impatto a diversi livelli: economico, sociale, tecnologico, educativo, culturale, sanitario, relazionale e non per ultimo sulla salute mentale delle persone. Lei che opera proprio all’interno del DSM certamente avrà avuto un riscontro diretto e immediato di tale impatto.

 

G.D. Il Covid ha ucciso sicuramente tantissime persone e ha prodotto molti danni in ambito di salute mentale: innanzitutto danni diretti da infezione del Coronavirus sulle aree cerebrali deputate alla regolazione della corteccia cingolata anteriore e parieto-temporale (questo perché il Covid produce una vasculite cerebrale con l’attivazione della microglia che organizza e struttura la rete neurale in modo diverso). Poi, gli effetti sociali del Covid che abbiamo vissuto tutti con il blocco a casa, ma in particolare con la DAD che ha impedito soprattutto agli adolescenti la co-regolazione tra coetanei che si realizza fondamentalmente nel contesto normativo della scuola. Il boom dei social e dell’uso dei cellulari ha coinciso anche con questa separazione forzata, rimettendo gli adolescenti in un obbligo di  convivenza h24 con le famiglie e determinando questa disregolazione che, negli ultimi anni,  si manifesta prevalentemente su due versanti: quello esternalizzante con i disturbi da uso di sostanze, i disturbi del comportamento alimentare, l’anoressia restrittiva, il tentativo di suicidio, l’ideazione suicidaria e soprattutto il cutting – le ragazze che si tagliano sull’avambraccio.

In generale, nella popolazione si assiste, da una parte, alla violenza agita, o alla violenza digitale, come al cyberbullismo, dall’altra parte al versante internalizzante con un boom di hikikomori, di depressione e di ansia.

A questo scenario psicopatologico dobbiamo aggiungere gli eventi sociali: uno è rappresentato dall’aumento notevolissimo degli stranieri residenti nel nostro paese con tutti i problemi legati all’integrazione. Un famoso articolo di Jim van Os (2010) ci dice che i quattro fattori ambientali considerati causali per la schizofrenia sono: il trauma, cioè l’inadeguatezza genitoriale precoce (ovviamente l’abuso, ma anche le condizioni più banali, come ad esempio la mamma depressa che quando allatta il figlio non lo guarda negli occhi oppure la mamma non depressa che invece di guardare il figlio negli occhi mentre allatta, chatta sul telefono); fare uso di cannabis; vivere in un contesto urbano sovraffollato; far parte di una minoranza etnica non integrata. Questi sono i quattro determinanti di van Os che sono ancora assolutamente validi e ci fanno capire che gli eventi sociali hanno una rilevanza diretta sul nostro funzionamento mentale e quindi sull’espressione psicopatologica.

Oggi conosciamo bene i meccanismi epigenetici, cioè i meccanismi attraverso i quali l’ambiente determina delle modificazioni, non della sequenza del DNA, ma della sua espressione con conseguenze di carattere strutturale, superando quella divisione veramente ideologica tra ciò che è psicologico e ciò che è biologico.

Un altro cambiamento è legato al crollo della funzione paterna, e su questo un eccellente junghiano ha scritto il bellissimo libro Il gesto di Ettore (Zoja 2003).

Il padre prima rappresentava la forza, il confine, la norma, ovviamente accompagnata anche dall’affetto. Oggi questo è andato completamente perduto, non ci sono più limiti nei quali si possa sviluppare la persona e quindi anche il suo cervello, la sua mente. Del resto, noi siamo animali neotenici, cioè animali che conservano da adulti caratteristiche infantili. Per questo l’adolescenza si conclude a 25 anni, quando le aree frontali raggiungono la piena maturità.

 

C.R. Questo perché?

 

G.D. Facciamo un passo indietro. Noi siamo animali e abbiamo soltanto l’1,4% di differenza in termini di DNA con lo scimpanzé. Questo 1,4%, non è dato da geni strutturali – infatti la nostra emoglobina, la nostra insulina, sono uguali a quelle dello scimpanzé – ma da geni regolatori di tipo inibitorio. Il nostro sviluppo è rallentato rispetto allo scimpanzé, che ad esempio acquisisce a soli 15 mesi la coscienza di secondo ordine, cioè la coscienza identitaria, mentre noi lo facciamo a 18 mesi, perché ci mettiamo più tempo per permettere al nostro cervello di interagire più a lungo in una condizione di plasticità con l’ambiente. Fondamentali sono le relazioni che plasmano la nostra competenza sociale, che ci rende esseri umani e che permette la piena espressione anche della personalità, ma soltanto attraverso un percorso che è molto più lungo di qualsiasi altro animale. Questo non riguarda solo l’intelligenza nel fare, ma soprattutto la diversità della sfera emotiva ed affettiva che poi è quello che ci permette di convivere con le altre persone.

 

C.R. Dagli anni ’80 lo scenario è completamente cambiato, grazie anche alle nuove conoscenze. Come porsi con l’ortodossia della cura?

 

G.D. Io sono convinto che se Basaglia fosse vissuto più a lungo avrebbe sicuramente modificato alcuni aspetti del suo insegnamento. Ritengo che mantenere l’ortodossia cieca, in qualunque ambito, sia un’espressione di stupidità. Dobbiamo avere la capacità di leggere i cambiamenti del contesto e anche di impadronirci delle nuove conoscenze. Ad esempio, mediante le neuroscienze oggi sappiamo del cervello cento, mille volte più di quello che non si sapesse nel 1978 e di questo non possiamo non tenere conto. Quindi anche i nostri servizi devono essere organizzati in base alla clinica e alle conoscenze, non devono essere organizzati su base ideologica o sulla base della tradizione, ma devono avere la capacità di guardare avanti, per esempio nell’andare incontro al disagio adolescenziale, che oggi è il fenomeno emergente per eccellenza e su cui dobbiamo avere una grande capacità di risposta.

 

C.R. Nel giugno del 2023 la Commissione Europea propone “Un approccio globale alla salute mentale” basato su tre principi guida: prevenzione adeguata ed efficace, accesso alle cure e all’assistenza di qualità e a costi sostenibili, reinserimento nella società. Mi sembra di cogliere che nel DSM Roma 1 si siano da tempo anticipate le linee guida della Commissione Europea?

 

G.D. Oggi non abbiamo più il cosiddetto residuo manicomiale, per noi i giochi cominciano con il concepimento, siamo molto attenti alla gravidanza, abbiamo sviluppato servizi per il periodo peri partum, un programma che si chiama “I primi 1000 giorni” perché sono quelli i momenti in cui si fanno gran parte dei giochi. Se rimaniamo ad attendere l’esordio della schizofrenia a 14-15-16-17 anni è come se aspettassimo che un malato oncologico sia pieno di metastasi. Dobbiamo intervenire prima, dobbiamo promuovere la salute mentale nelle scuole, in tutti i contesti di lavoro, nelle famiglie, dobbiamo avere la capacità di intervenire precocemente, sia attraverso interventi di prevenzione oppure attraverso i trattamenti precoci.

Una grandissima metanalisi del 2022 su 192 studi ha dimostrato che la maggior parte dei disturbi psichiatrici oggi esordisce prima, e quindi noi non possiamo aspettare che questo avvenga, ma dobbiamo intervenire molto più velocemente.

 

C.R. Quindi sono molto importanti i programmi di prevenzione al pari dei programmi di cura e assistenza?

 

G.D. Sì, certamente. In questo Dipartimento abbiamo sviluppato un’Unità Operativa che va dalla pubertà ai 25 anni e quindi evita quella transizione tra i servizi dell’età evolutiva e i servizi adulti a 18 anni che non ha senso da un punto di vista psicologico, biologico, da nessun punto di vista, che spesso è causa di malpractice o comunque di abbandono; abbiamo creato un servizio integrato che si occupa di adolescenti che mette insieme le dipendenze, i disturbi del comportamento alimentare, il TSMREE (Tutela Salute Mentale Riabilitazione in Età Evolutiva) e l’adolescenza; abbiamo creato un day hospital madre-bambino che rappresenta l’apice di una piramide di trattamenti che si occupa di tutte le donne in gravidanza e compie sia interventi molto specializzati sull’intero nucleo familiare, compreso il bambino, creando un contesto amichevole con la sedia per l’allattamento, con i giochi per i bambini, sia interventi domiciliari sul nucleo familiare per migliorare l’appropriatezza genitoriale. In questo modo pensiamo di aiutare la donna e il marito, che spesso ha una patologia, ma soprattutto aiutiamo il bambino, cosa che in termini preventivi ci interessa maggiormente.

Come direttore ho l’obiettivo di identificare quello che chiamiamo la best practice e poi di renderla attuabile in tutto il territorio del dipartimento. Di conseguenza, questi interventi innovativi diventano patrimonio di tutti, e per questo noi lavoriamo moltissimo anche sulla formazione, tanto da ricevere spesso i visitatori sia dall’Italia sia da altri Paesi.

 

C.R. Quanti altri servizi sono operativi all’interno di questo dipartimento?

 

G.D. Il Dipartimento ha 47 sedi, ha una rete molto vasta e siamo molto sparsi sul territorio.

Tra le principali sedi abbiamo: il Polo integrato di via Cassia, l’unità operativa per l’adolescenza 14-25, il day-hospital madre-bambino, 5 SerD, un’unità operativa TSMREE con 6 sedi, il polo di valutazione dei disturbi specifici di apprendimento (dislessia, disgrafia, discalculia ecc.), il servizio per i DCA con una residenza a 10 posti e un centro diurno di riabilitazione nutrizionale, quattro SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) dei quali due a gestione diretta al San Filippo Neri e al Santo Spirito e due universitari al Sant’Andrea e al Policlinico Umberto I, 11 Centri di Salute Mentale (CSM), 12 centri diurni, 5 strutture residenziali a gestione diretta sul territorio.

Poi ci occupiamo di due hot spot, chiamiamoli così: uno è il carcere di Regina Coeli, dove abbiamo  l’Unità Operativa salute mentale e dipendenze, e dove ci sono 1.200 detenuti per 652 posti, con dei problemi strutturali gravissimi e dove noi cerchiamo di fare del nostro meglio; l’altro è l’Istituto minorile di Casal del Marmo dove i numeri sono molto più bassi, ma dove ultimamente c’è stata una rivolta a settimana, soprattutto da parte di detenuti nordafricani, tunisini, egiziani e marocchini, spesso arrivati con le barche. Non hanno veri e propri problemi di salute mentale in senso psicopatologico, ma in senso generale, perché sono persone sradicate, che hanno vissuto e vivono esperienze estremamente traumatiche e hanno sviluppato intolleranza alle regole e comportamenti molto violenti.

Credo che questo sia il modo migliore per valorizzare Franco Basaglia e quello che ha fatto, non rimanere fermi, ma continuare ad essere all’avanguardia dei trattamenti e della prospettiva della salute mentale nel mondo, così come lo siamo stati con la chiusura dei manicomi.

 

C.R. Nei servizi territoriali per la salute mentale l’affidamento ai protocolli per l’assistenza psichiatrica, seppur necessari, rischia di porre meno attenzione alle necessità e ai bisogni intimi della persona? Lei ritiene che l’applicazione dei protocolli possa limitare l’intimità del rapporto?

 

G.D. Io credo che questo sia semplicemente legato alla preparazione e all’intelligenza dell’operatore; però, si deve anche tener conto che la salute mentale si fa anche grazie all’organizzazione e l’organizzazione si deve dare delle regole.

In questo Dipartimento di Salute Mentale così grande lavorano 820 persone che seguono oltre 28.000 pazienti in un territorio molto vasto. Non si può pensare che ognuno faccia come gli pare, quindi è chiaro che le procedure servono per omogeneizzare gli interventi e al tempo stesso essere equi, perché non è giusto che se una persona è residente in una parte del territorio di Roma di mia competenza riceva un trattamento diverso da una persona residente in un’altra zona appartenente sempre a questo territorio.

Noi per esempio lavoriamo molto con i cosiddetti PDTA – i Percorsi Diagnostici Terapeutici Assistenziali – che sono anche un impegno nei confronti dell’utenza rispetto a quello che noi possiamo erogare e che ci permettono di creare degli alberi decisionali. Ovviamente si possono fare poi delle eccezioni, ma devono essere motivate; per esempio, una procedura molto importante e anche molto innovativa è quella del trattamento farmacologico nel corso di gravidanza, perché questa va a toccare tabù, credenze e pregiudizi anche notevoli. Ad esempio, nel caso di una donna con disturbo bipolare e che fa uso di litio l’indicazione è quella di non sospendere, perché i vantaggi sono molto superiori ai possibili svantaggi; mentre invece suggeriamo la sospensione per altri farmaci, come ad esempio l’acido valproico.

Ecco, credo che si debba avere una cornice di riferimento all’interno della quale poi ci si possa muovere.

In questo Dipartimento noi attuiamo pienamente ciò che è indicato nel Piano di Azioni Nazionale per la salute mentale del 2013[5], che è il documento più rilevante che è stato fatto, seguito poi dalle Raccomandazioni della Conferenza unificata tra Stato e Regioni sul trattamento dei disturbi gravi, cioè dei disturbi schizofrenici, disturbi dell’umore gravi e disturbi di personalità gravi.

 

C.R. Cosa può dire dell’uso degli psicofarmaci? Basaglia stesso ne faceva uso, ma all’interno di una cornice di “cura” e non di controllo sociale. Oggi la situazione è cambiata? E se sì, in che direzione stiamo andando rispetto al “controllo sociale”?

 

G.D. Rimane dello spirito basagliano l’aspetto importante della restituzione sociale e non di “controllo sociale”.  Per quanto riguarda gli psicofarmaci, non ho idiosincrasie ideologiche, io pratico la monoterapia al più basso dosaggio possibile; si deve individuare il core del problema e se è un disturbo per il quale ci sono delle prove di miglioramento, il farmaco si deve dare; piuttosto, io suggerisco di evitare le poli-terapie.

Nessuno dei pazienti in questo dipartimento prende farmaci e basta; i farmaci se necessari sono sempre inseriti all’interno di un progetto di cura che pone al centro la relazione di cura. Qui non è applicabile prescrivere i farmaci e vedere la persona dopo un mese e chiedere “come va”, come può fare uno psichiatra privato.

 

C.R.  Da allora, dopo la riforma psichiatrica si sono sperimentati e collaudati diversi percorsi di cura, oggi cosa significa la “presa in carico e la cura” delle persone che soffrono di un disagio psichico grave?

 

G.D. Noi applichiamo “la presa in carico”, che è un intervento multidisciplinare a cui collaborano il medico, lo psicologo, l’assistente sociale, l’infermiere, il terapista della riabilitazione psichiatrica ed eventualmente altre figure esterne. È una équipe costruita per un modello che internazionalmente viene definito recovery, che vuol dire recupero, non guarigione.

Ciò significa puntare innanzitutto al recupero di una capacità negoziale, cioè essere proattivi nel proprio interesse e al tempo stesso avere una vita che si colloca al livello massimo possibile per quel tipo di disturbo e per quella situazione. Lavoriamo, quindi, moltissimo anche sugli interventi riabilitativi, soprattutto fondati su due aspetti che Basaglia aveva indicato molto chiaramente, e che fanno parte della restituzione sociale: il lavoro assistito, che non significa l’ergoterapia ma un lavoro normale in cui però noi offriamo alla persona prima un tirocinio poi, comunque, un supporto; l’abitare assistito: basta col traferire il manicomio sul territorio nelle residenze psichiatriche a vita, noi puntiamo sulla casa di proprietà o in affitto, dove la persona può stare da sola oppure convivere con altre persone che noi supportiamo e sosteniamo in questo processo. È un processo lungo e difficile, ma anche appassionante. Anche su questo siamo abbastanza all’avanguardia perché abbiamo un numero molto elevato – 400 persone in totale – in tirocinio e in casa.

Per le persone con disturbo emotivo comune, invece, il Piano Nazionale suggerisce quello che viene chiamato l’assunzione in cura, un intervento mono specialistico temporizzato; questo è lo spazio delle psicoterapie brevi per i disturbi che un tempo venivano chiamati della sfera nevrotica. In alcuni casi può esserci anche la collaborazione dello psichiatra: per esempio, nei casi con disturbo di panico è necessario associare una psicoterapia e un intervento farmacologico mirato. Per quei disturbi che necessitano invece di gruppi di auto-mutuo-aiuto, oppure dell’intervento di medicina generale, si parla di consulenza.

Stiamo cercando di applicare lo stesso sistema anche per quanto riguarda le dipendenze, in particolare le nuove dipendenze (cannabis, cocaina, tutti i cannabinoidi e catinoni sintetici e tutte le altre sostanze che sono presenti, oggi, sul mercato legale e illegale) e per le dipendenze comportamentali, in primo luogo il gioco d’azzardo per il quale abbiamo una specifica attività e siamo capofila nel Lazio per la formazione e per il trattamento.

 

C.R. Quindi è “una presa in carico” della persona in una pluralità e diversità di interventi secondo la gravità del disturbo.

 

G.D. Sì, sono interventi molto diversificati, però senza la logica del centro di eccellenza, ma con il modello Hub & Spoke[6]. Noi non facciamo selezione dell’utenza e ci muoviamo secondo i principi della prossimità e della continuità. Non possiamo permettere il “turismo psichiatrico” oppure i viaggi della speranza; dobbiamo essere vicini alle persone, vicini anche al luogo dove vivono, dove lavorano, dove vanno a scuola, dove hanno l’università e dobbiamo garantire una continuità che va oltre il rapporto del singolo professionista. La continuità è garantita dal sistema di cura, garantita dall’équipe in cui all’interno si possono pure succedere operatori diversi, ma la “presa in carico” resta perché è quella del servizio nei confronti della persona, un servizio che poi ha una faccia o diverse facce, intendo dire che non è un servizio impersonale.

Noi abbiamo per esempio sviluppato moltissimo la funzione del Case Manager, abbiamo 1500 pazienti che sono inseriti in programmi di Case management; sono tutti i pazienti gravi complessi e il Case Manager è l’operatore che accompagna queste persone e ha in qualche modo la visione complessiva degli interventi. Quasi sempre è l’infermiere, oppure l’assistente sociale e il terapista della riabilitazione.

 

C.R. A livello di territorio un paziente che appartiene alla ASL Roma 2 potrebbe curarsi nella ASL Roma 1?

 

G.D. Noi ci occupiamo dei residenti nel territorio della ASL Roma 1, però fino a un certo punto anche di coloro che hanno un domicilio sanitario sempre nel territorio di Roma Capitale, ma non siamo un polo privato che svolge una funzione attrattiva: il nostro obiettivo non è quello di avere più pazienti possibili, ma di occuparci nel miglior modo possibile di tutte le persone che sono residenti in questo territorio.

Questo è il mandato di un’azienda sanitaria locale e noi siamo pienamente inseriti all’interno di questo, quindi questi percorsi sono garantiti alle persone che sono residenti; gli interventi di consulenza, assunzione in cura e di emergenza sono garantiti a tutti coloro che hanno domicilio sanitario. Ad esempio: se il 118 mi porta una persona in SPDC residente nella ASL Roma 2, se deve essere ricoverato lo ricovero, se deve essere curato lo curo, ma entro 48 ore la ASL Roma 2 lo riprende in uno dei suoi SPDC.

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L’organizzazione per la salute mentale è molto complessa e si fonda sulla quota capitaria cioè sui finanziamenti che la ASL riceve in funzione del numero dei suoi residenti. Pertanto non possiamo strutturare servizi per un numero improbabile; io so perfettamente qual è la prevalenza dei disturbi nel mio territorio e anche l’incidenza attesa. Faccio un esempio molto specifico: abbiamo strutturato una centrale autismo che ha proprio il modello Hub & Spoke e che attraverso gli spoke dei diversi TSMREE dislocati sul territorio riesce ad intercettare il 99% dell’incidenza attesa dei disturbi dello spettro autistico tra i 18 e 24 mesi di vita. Questo è un sistema che noi abbiamo tarato sulla nostra popolazione, cioè sappiamo quanti sono i bambini con autismo e li possiamo intercettare ogni anno in questo territorio; la competenza territoriale è legata al fatto che per fare una programmazione sanitaria è necessario sapere quali sono i pazienti che mi aspetto e quindi strutturare i servizi in funzione di questo. Pertanto, non è possibile sviluppare servizi che sono aperti a tutti, come il Bambin Gesù che ha una maggiore libertà di accoglienza, e ricovera minori psichiatrici anche di alcune ASL del Lazio, mentre altre ASL si rivolgono a Via dei Sabelli.

Il nostro sistema per la salute mentale è totalmente gratuito, noi non abbiamo bisogno neanche della prescrizione di un medico di medicina generale, ci si può rivolgere ad un centro di salute mentale senza nessuna prescrizione e non si paga nulla; io difendo questo sistema perché ritengo che dobbiamo abbattere tutti gli ostacoli che ci sono tra una persona e il sistema della cura. In alcuni casi le persone che soffrono di disturbi mentali non hanno consapevolezza del proprio stato; inoltre esiste ancora un fortissimo stigma nei confronti della malattia mentale e questo ostacola l’accesso ai servizi: se io lo ostacolo ulteriormente facendo pagare o chiedendo la prenotazione al CUP e così via, creo un ulteriore ostacolo che diminuisce la mia capacità di intercettare il disagio e di trattarlo prima che questo diventi anche un disturbo grave.

La stessa cosa facciamo in tutte le scuole superiori, ove ci sono degli sportelli che sono assolutamente gratuiti, anzi i ragazzi possono accedere anche attraverso uno pseudonimo, per facilitare ancora di più l’accesso. In questo modo abbiamo un’ampia capacità di lettura del disagio e di conseguenza anche la possibilità di intervenire là dove non c’è ancora un vero disturbo.

 

C.R. Considerando, oggi, la molteplicità dei disturbi mentali che lei ha menzionato, rispetto a 50 anni fa, ritiene che i casi gravi di psicopatologia siano aumentati?

 

G.D. La “schizofrenia pura”, ammettendo che esista, in una visione globale non è aumentata; tuttavia l’idea che rimanga uguale nel tempo e nello spazio si è rivelata falsa.

Faccio un esempio. Qualche anno fa sono andato a visitare i servizi psichiatrici di un Mental Health Trust di Londra. Nel corso del mese di permanenza ho fatto anche alcune visite domiciliari in un quartiere che era abitato solo da giamaicani ed ho riscontrato che avevano tutti i fattori di rischio che prima ho detto: i bambini nascono generalmente da madri minorenni sole, c’è una grande promiscuità sessuale, quindi un alto rischio di inappropriatezza genitoriale, tutti fanno uso di cannabis, mangiano le torte al cioccolato con la marijuana, vivono in uno spazio limitato – la schizofrenia ha che fare con la limitazione di spazi – infine sono una minoranza etnica non integrata con il resto della popolazione, a differenza di altre etnie come gli indiani, i pakistani e soprattutto gli italiani. Il risultato è che l’incidenza della schizofrenia in quel quartiere è il triplo rispetto non ad un’altra città, ma al quartiere accanto. Questo per confermare quanto i fattori ambientali incidono sulla salute mentale.

Sono aumentati tantissimo i disturbi da disregolazione emotiva, così anche l’ADHD di adulti, perché non erano stati diagnosticati come tali nell’infanzia. Oggi, se curati con un intervento sia di tipo psicologico sia farmacologico adeguato, si hanno risultati straordinari: personalità antisociali e abusatori di sostanze cambiano radicalmente la loro traiettoria di vita. Questo è dovuto al fatto che si fanno più diagnosi su tutti i disturbi dello sviluppo.

Poi abbiamo una vera e propria epidemia da dis-regolazione dovuta agli eventi ambientali prima citati: telefoni, Covid e sostanze.

 

C.R. Quindi i fattori, diciamo, esterni ambientali hanno determinato e determinano gravemente disturbi psichici.

 

G.D. La genetica è abbastanza stabile, i fattori ambientali attraverso i meccanismi epigenetici invece variano e determinano modificazioni imponenti. Ad esempio, il Covid ha determinato un aumento incredibile dell’anoressia grave, anche a rischio di vita, tant’è vero che noi in questa ASL abbiamo aperto una residenza con 10 posti letto per ragazze anoressiche. È una residenza, non una comunità terapeutica, si fa soprattutto un lavoro di riabilitazione nutrizionale, ma ovviamente le ospiti condividono spazi, attività, progetti eccetera; siamo gli unici nel Lazio ad averlo fatto perché siamo convinti che sia necessario uno strumento di questo genere, dato il notevolissimo aumento di casi soprattutto nelle ragazze minorenni.

 

C.R. Lei ricopre anche la carica di Direttore dell’Unità Operativa Complessa SPDC del S. Filippo Neri. È un servizio anche questo molto impegnativo? Potremmo dire nel complesso che lei ha una funzione manageriale nel riuscire a coordinare e organizzare così molteplici servizi per l’assistenza e la cura delle varie forme dei disturbi psichici?

 

G.D. Sono da 27 anni Primario del SPDC del San Filippo Neri; prima dell’incarico di Direttore del DSM ci andavo tutti i giorni; attualmente vado in ospedale tre mattine a settimana: parlo con i pazienti, vedo i progetti, decido le terapie, eccetera. Ci sono colleghi bravissimi che lavorano lì h24. Oggi ho dei compiti gestionali molto complessi tra cui il reclutamento e la formazione del personale, la ricerca di finanziamenti. Partecipiamo a moltissimi progetti di ricerca che ci permettono anche di avere personale per fare delle cose buone, perché partecipiamo sempre a progetti di ricerca/intervento che utilizziamo non soltanto per il fine della ricerca, ma anche come strumento per aumentare le nostre capacità di risposta. Per citarne qualcuno: siamo capofila di “Unplugged”[7], che ha compiuto da poco 15 anni, e che vorremmo ampliare anche alle scuole elementari, e siamo dentro il progetto “Scuole che promuovono salute” e capofila di “Educata-mente’, progetti rivolti ai ragazzi di scuole medie e di scuole superiori, soprattutto concentrati sulla Peer Education e sulla creazione di testimonial coetanei.

Inoltre mi occupo della gestione degli accreditati, le ex case di cura neuro-psichiatriche e le ex comunità terapeutiche, che sono diventate, secondo la tipologia nazionale, Strutture residenziali psichiatriche tipo 1, tipo 2, tipo 3, in parte a gestione diretta, con un notevole impegno gestionale, e in parte accreditate e che necessitano quindi dell’Unità di valutazione multidisciplinare.

Ovviamente, alcune cose le faccio direttamente, per altre esiste un’Unità operativa di Governo Clinico[8] che si occupa di tutti questi aspetti e gestisce alcune attività particolari, come ad esempio i pazienti autori di reato, la Centrale casi complessi, che armonizza e cerca di trovare soluzioni condivise per l’interesse dei pazienti che sono seguiti da unità operative diverse.

Lavorare in un Dipartimento appare molto complesso. Bisogna avere in testa tutte le linee di sviluppo e riuscire a mantenere una visione strategica e prospettica, perché talvolta la complessità ti schiaccia, per cui pensi solo a gestire l’esistente, mentre invece bisogna avere e mantenere questa capacità di lettura dei cambiamenti per stare sulla situazione e progettare il cambiamento. Ovviamente questo presuppone avere un sistema epidemiologico molto efficiente e una cartella informatizzata web based accessibile a tutti.

Insomma, è un equilibrio difficile, però ancora mi diverte. Ho 66 anni e non sono proprio un ragazzino, però vorrei rimanere fino a 70 anni. In questo Dipartimento lavorano persone straordinarie e dico sempre che quello che abbiamo ottenuto è dovuto a un lavoro di squadra, non c’è l’uomo solo al comando…

 

C.R. …questo credo sia fondamentale…

 

Ovviamente è chiaro che io rappresento il Dipartimento nelle sedi istituzionali, in Regione, a livello Nazionale, ecc., lo rappresento e per certi versi lo incarno, ma con me ci sono tantissime persone straordinarie e validissime che guardano avanti, che sono estremamente preparate e che hanno anche una capacità di non rimanere legati a un’area di comfort anche intellettuale, ma sono capaci di cambiare.

Io non vorrei continuare ad occuparmi del Dipartimento dopo il mio pensionamento, ma vorrei che il Dipartimento avesse le forze per andare avanti, e per avere le forze bisogna costruirle, bisogna farle crescere.

 

C.R.  Come voler passare il testimone a qualcuno…

 

G.D. Sì, vorrei passare il testimone non nel vuoto, ma preparandolo. Su tutte le attività che le ho descritto ci sono molti operatori qualificati che hanno piena delega e piena responsabilità, nello sviluppo della cartella informatizzata e della salute mentale peri partum, nell’adolescenza, nell’età evolutiva, in tutti questi ambiti e in molti altri ci sono persone molto molto valide.

Su questo sono molto esigente; le persone che vogliono venire a lavorare in questo Dipartimento sanno anche che qui si lavora moltissimo, molto di più che in altri luoghi e che il livello richiesto è molto alto. Non esiste che una persona non si aggiorni e soprattutto non sia informata anche di tutto quello che avviene dentro il DSM. Per fare questo, abbiamo sviluppato due sistemi di informazione. Uno di informazione scientifica: ogni dirigente, coordinatore infermieristico, medico, psicologo, eccetera, ha a disposizione un App con cui ogni giorno riceve informazioni su ciò che viene pubblicato in letteratura sui temi che sono legati alla salute mentale, non soltanto sui farmaci – che sarebbe la cosa più ovvia –, ma soprattutto sugli interventi psicosociali, gli studi epidemiologici e così via. Tutti i giorni ognuno ha la possibilità di aggiornarsi, oltre al fatto che sul proprio telefono ha la cartella informatizzata. Poi abbiamo anche una newsletter, con la quale il Dipartimento raggiunge tutti e che viene inviata anche alla Direzione aziendale, alla Consulta, di cui fanno parte associazione familiari, associazioni di volontariato, eccetera e che rappresenta un nostro stakeholder importante. Sono tutti numeri monotematici e approfondiamo alcuni aspetti in modo tale che tutti quelli che lavorano nel Dipartimento siano a conoscenza anche di prospettive che sono molto lontane dalla loro prassi quotidiana. Per me è molto importante che ci sia un forte senso di affiliazione che non sia basato su vissuti paranoicali come “noi contro tutti”, oppure narcisistici come “noi siamo meglio”, oppure “qui soltanto si fa”, eccetera, ma che siano basati invece sulla condivisione di obiettivi, strategie, risultati e così via; insomma, vuole essere un tentativo per abbassare il livello di patologia mentale, cercare il più possibile di essere trasparenti, di condividere e di lavorare sulla motivazione. La cooperazione è fondamentale.

 

C.R. E poi lei prima ha parlato di “responsabilità”.

 

G.D. Sì, la sento molto forte in questo DSM c’è questo elemento che gli inglesi definiscono accountability, che vuol dire “io rendo conto di ciò che faccio”; questo è fondamentale. Quando ci sono cose che non vanno, nel senso che non è poi tutto rose e fiori, faccio degli audit dedicati; il sistema degli audit è diventato parte integrante della formazione di tutto il Dipartimento, in tutte le unità operative si svolgono audit sistematici e poi ci sono gli audit episodici che sono legati ad eventi sentinella, o a problemi che si sono verificati.

 

C.R.  La ringrazio molto dott. Ducci della sua disponibilità e del tempo sottratto ai suoi innumerevoli impegni, per avermi illustrato così ampiamente e dettagliatamente l’organizzazione del DSM di Roma 1, che negli anni – possiamo dire – è l’evidente frutto della riforma psichiatrica.

 

G.D. Forse non tutti i DSM sono così, ma io penso che questo sia un modello positivo, ovviamente con luci ed ombre; è un modello di riferimento in Italia per moltissimi, e moltissimi sono i DSM di qualità, come Catania, Modena, Ancona e molti altri, ben organizzati come questo della ASL Roma 1.

 

Uscendo dalla sede del DSM di Roma 1, percorro i viali del grande parco dell’ex Ospedale del S. Maria della Pietà, e osservo quei padiglioni all’epoca “chiusi”, oggi trasformati in attività sanitarie, uffici comunali, Museo Laboratorio della Mente, associazioni, scuole di formazione, altri in ristrutturazione e quelli ancora in attesa di destinazione e, con un sentimento di gioia interiore, realizzo più concretamente che quel grido silenziato e relegato della sofferenza dei così detti “malati mentali”, in 46 anni dalla rivoluzionaria riforma psichiatrica, ha potuto trovare ascolto e attenzione nella molteplicità e diversità degli interventi attuati sul territorio. Certamente però il cammino è ancora in salita per migliorare il benessere mentale e psicologico della popolazione.   

 


Note

  • [1] Julian Leff è professore del Social and Cultural Psychiatry all’Institute of Psychiatry di Londra. Membro del Medical Research Council, ha svolto la propria ricerca nel campo dell’influenza dell’ambiente familiare sulle malattie psichiatriche e non, dei fattori sociali della schizofrenia in una prospettiva psichiatrica transculturale e delle minoranze etniche.
  • [2] Gazzetta Ufficiale della Repubblica del 16 maggio 1978 Legge 180.
  • [3] Statuto dei Lavoratori – Legge 20 maggio 1970 n. 300.
  • [4] Con la Legge 517 del 4 agosto 1977 è stato possibile procedere all’abolizione delle classi differenziali per gli alunni svantaggiati. Legge Quadro n. 104 del 5 febbraio 1992 per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.
  • [5] Rep. Atti n.138/CU n. 183/CU del 138/CU art. 1 – Definizione dei percorsi di cura da attuare nei dipartimenti di salute mentale per i disturbi schizofrenici, i disturbi dell’umore e disturbi gravi di personalità.
  • [6] L’utilizzo del modello Hub & Spoke in medicina parte dall’assunzione di base che per determinate patologie e/o situazioni molto complesse sia necessario disporre di competenze specialistiche rare e/o apparecchiature molto costose, che non possono essere assicurate in modo diffuso su tutto il territorio. Il modello prevede quindi che l’assistenza per tali situazioni venga fornita da centri di eccellenza regionali o di macro area, detti appunto hub, a cui afferiscono dai centri periferici, detti spoke, i pazienti per i quali il livello di complessità degli interventi attesi superi quello che può essere fornito dai centri periferici.
  • [7] Il Progetto “Unplugged” è rivolto ai giovani delle Scuole Secondarie di Primo Grado della Regione Lazio per prevenire l’uso di tabacco, alcol e droghe, nell’ambito del Piano Regionale di Prevenzione 2020/2025, PP1A5 Diffusione e consolidamento degli interventi basati sulle Life Skills e Peer Education.
  • [8] Il termine “Governo Clinico” (clinical governance) è stato introdotto dall’OMS nel 1993 come comune denominatore delle diverse dimensioni della qualità assistenziale.

Bibliografia

  • Basaglia F. 1968 (a cura di), L’istituzione negata, Rapporto da un ospedale psichiatrico, Einaudi, Torino.
  • Caspi A., Moffitt T. et al. 2013, The P Factor – One General Psychopathology Factor in the Structure of Psychiatric Disorders?, in «Clinical Psychological Science», August 14, 2/2.
  • Van Os J. et al. 2010, The environment and schizophrenia, in «Nature», November 11, n. 468(7321), pp. 203-212.
  • Zoja L. 2003, Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri Torino.

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